Prima arriva Benedetto, in macchina, invecchiato, ma sereno. Poi a passo spedito Francesco. Sorprende il Papa emerito alle spalle, poi lo abbraccia. E così si consuma il terzo incontro tra i due uomini in bianco. Sotto il sole romano, davanti ad una piccola folla di dipendenti vaticani e monsignori di curia.
Nel giorno in cui viene presentata al pubblico la prima enciclica del pontificato bergogliano e in cui viene annunciata al mondo la prossima canonizzazione di ben due successori di Pietro (e di che calibro…) la cronaca vaticana regala pure la presenza simultanea, nei giardini sorvegliati dalle mura leonine, di Benedetto e Francesco. Le parole sussurrate e carpite dalle telecamere gravitano intorno alle sillabe necessarie a mettere insieme un “grazie”. E’ Francesco che non smette di rivolgersi al suo predecessore, esprimendo gratitudine.
Agli amici e collaboratori aveva preannunciato una sorpresa. E non si trattava della firma sui decreti che aprono la strada per gli altari a Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII. Papa Bergoglio aveva chiesto personalmente a Benedetto di rompere il suo ritiro monacale per presenziare alla cerimonia di inaugurazione di un nuovo monumento a san Michele Arcangelo, presso il palazzo del Governatorato. Non un incontro consumato nell’intimità di poche stanze e quasi rubato dalla telecamere, ma un evento ufficiale e pubblico, con cui si doveva porre sotto la protezione dell’Arcangelo l’intero Stato del Vaticano.
E forse proprio intorno alla figura apocalittica ruota tutto il senso della doppia presenza in bianco. E’ vero che la storia della statua ha origini nel pontificato ratzingeriano e che l’opera, dell’artista Giuseppe Antonio Lomuscio, doveva essere offerta al Papa tedesco il 19 aprile scorso, ma l’invito di Bergoglio non nasce da un puro atto di cortesia. Francesco voleva accanto a lui il pontefice-monaco, l’orante dentro il recinto di Pietro. Voleva condividere con il Papa perso nella contemplazione e nella preghiera un momento che non aveva nulla della formalità curiale.
San Michele Arcangelo è uno figo. Uno che sguaina spada e impugna furore, che combatte il male e il diavolo. Nel bronzo ha i tratti eroici di un giovane nel pieno del suo vigore, nel libro di Daniele è lo speciale protettore del Popolo di Dio, mentre nell’Apocalisse a capo delle schiere celesti, sconfigge Satana e tutte le forze opposte al Regno di Dio. E’ il defensor Ecclesiae. O meglio il difensore del Popolo di Dio e della Chiesa, contro tutte le forze del male. E Papa Francesco voleva pregare insieme a Benedetto questo alfiere coraggioso e imbattibile. Michele è una domanda: “chi è come Dio?” è la traduzione dell’ebraico Mi-Kha’El, il grido di battaglia con cui l’Arcangelo nelle Sacre Scritture si scaglia contro gli angeli ribelli.
E’ il campione del primato di Dio, della sua trascendenza e della sua potenza, lotta per ristabilire la giustizia divina e vince, perché in lui agisce Dio. Ebbene Papa Francesco voleva mettere sotto la sua protezione quel piccolo Stato che gli dà molti grattacapi, almeno a giudicare da quello che scrivono tanti colleghi, ma soprattutto l’intera Chiesa. Nel consacrare lo Stato del Vaticano all’Arcangelo, sperava di difenderlo dal Maligno. Di gettarlo fuori. E chi ha voluto accanto a sé? Il Papa della “sporcizia nella Chiesa”, quello che ha costretto alla conversione l’intera curia con il più grande atto di umiltà, la rinuncia al ministero petrino.
Chi continua a vedere una discontinuità inesistente, a cercare in controluce le diverse sensibilità dei due papi, persino nella prima enciclica scritta a quattro mani e firmata da Francesco (ma diciamocelo chiaramente: chi è quel fesso che avendo a disposizione Ratzinger come ghost-writher non ne approfitta?), chi si ostina a parlare di rivoluzioni, deve rassegnarsi ad una sintonia totale dei due uomini in bianco riguardo al nemico numero uno. Un’alleanza imbattibile specie se supportata dall’Arcangelo. Poi, come se non bastasse, altri due successori di Pietro andranno ad infoltire la compagnia dei Santi. Curioso che tutto sia accaduto in un solo giorno. E ancora più curioso che Francesco li abbia voluti così fortemente insieme da far saltare a Roncalli persino la tappa del miracolo.
Sì, perché mentre Wojtyla si è dovuto impegnare intercedendo per l’ennesima grazia, Giovanni XXIII è stato esentato. Fama signorum, vale a dire è chiara l’efficacia della sua intercessione presso il Signore. Facciamolo santo senza aspettare un altro inequivocabile segno. Del resto proprio alla fine del Concilio, molti dei padri che avevano parteciparono all’assise firmarono una petizione per la sua beatificazione, qualcosa di simile al “santo per acclamazione”. La prudenza di Paolo VI fece scivolare l’ardore devozionale e la gratitudine ecclesiale nei canali stabiliti dalla Congregazione dei Santi, legando la sua causa a quella di Pio XII. Ora ci troviamo con un Papa che usa la stessa autorità per compiere un atto senza precedenti, almeno nella storia recente. Ma in fondo sono passati 50 anni. E Papa Roncalli ne ha avuto di tempo per dimostrare, dal cielo, che chi lo venera non ripone la speranza invano.
Forse ha ragione il cardinale Marc Ouellet, che commentando la giornata ricca di protagonismo petrino ha detto: “Il pontefice è il primo testimone della fede, l’annuncio della doppia canonizzazione, nel giorno in cui viene pubblicata una enciclica frutto di un lavoro di comunione è una conferma dell’importanza della successione apostolica, ma è anche la chiave per la trasmissione della fede nella sua purezza originaria”.