Come era abbondantemente prevedibile le parole che Papa Bergoglio ha pronunciato in aereo di ritorno dal Brasile sui gay, come sul matrimonio o sul ruolo della donna nella Chiesa, sono state inquadrate in una logica mondana che, presentandosi come esperta di “cose spirituali” ha ridotto il messaggio del Papa a uno slogan molto semplice ed efficace: “il Papa non giudica, come non ha giudicato Gesù. Egli lascia vivere gli altri in santa pace, sapendo che sarà Dio a pronunciare il giudizio ultimo sulla vita”. La sintesi delle parole papali non poteva essere più eloquente: l’invito a non giudicare suona come un monito, rivolto a tutti i cattolici, alfine di non mettersi di traverso alla modernità che avanza nei parlamenti e nei tribunali del vecchio Occidente. Il punto, anche in seno ai cristiani, sta tutto nella parola “giudizio”. La Chiesa viene ridotta a propagine del potere dominante ogni volta che la si usa per condannare o per assolvere i comportamenti che la propria ideologia ha già stabilito come buoni o come cattivi.
Fin dal Nuovo Testamento, infatti, la parola “giudizio” ha avuto una pluralità di significati che ha confuso e disorientato i più, favorendo l’O.P.A. del potere del mondo sulla fragile comunità cristiana. Al capitolo 7 del Vangelo di Matteo, ad esempio, Gesù invita a “non giudicare”, mentre Paolo, nel capitolo 15 della sua prima lettera ai Corinzi, esorta con forza a “giudicare tutto”. La contraddizione, come si capisce, è facile e dietro l’angolo. Il problema, però, sta tutto nella traduzione. Gesù, quando invita a non giudicare, sia in Matteo che nel versetto parallelo in Luca, usa il verbo “krino”, che in greco significa “separare, distinguere”. Paolo, trent’anni dopo, invita a giudicare tutto con il verbo “dokimazo”, che ha il valore di “esaminare, verificare”. Il Nuovo Testamento, insomma, ci invita a non separare e a non distinguere, come nella parabola della zizzania dove il padrone ordina ai suoi di non dividere il grano buono dall’erbaccia cattiva.
Questo gesto del “dividere”, del “separare” è proprio di Dio: è Lui che nella Creazione divide il cielo dalla terra, il mare dall’asciutto, i rettili dagli anfibi, gli uomini dagli altri animali. Ed è sempre Dio che, al capitolo 25 di Matteo, divide – nel giudizio finale – i capri dalle pecore, i buoni dai cattivi. Ciò che spetta a Dio, pertanto, è quello di fissare l’uomo in un punto definitivo, di dividerlo per sempre dal resto degli altri uomini, nel bene come nel male.
Ciò che tu fai, dice il Vangelo, non ti condanna per sempre, non ti identifica per tutta la vita, non diventa il tuo valore, quello che sei. Solo a Dio spetta dire ciò che tu sei, solo a Dio spetta definire i tuoi contorni, i tuoi confini, la tua identità ultima. Questo è ciò da cui noi dobbiamo astenerci: fissare e definire la vita dell’altro a partire dalla sua azione più eloquente, dalla sua vicenda più nota e clamorosa. Questo è il compito che spetta a Dio, il quale conosce anche ciò che non è clamoroso e sa ben definire, sa ben dare, una parola definitiva sull’esistenza dell’altro. Ciò che compete ad ognuno di noi è, invece, verificare tutto, esaminare ogni fatto e comportamento della vita per respingerlo o consegnarlo agli altri come “buono”.
Questo – obietterebbero alcuni – non significa “pretendere che quel comportamento sia condannato o promosso a livello sociale”. Indubbiamente questa posizione ha un fondo di verità: una volta che una strada è scoperta come non buona, non umana, non occorre che tale scoperta diventi norma giuridica, giudizio legale, per essere vissuta seriamente.
Qui, però, interviene il secondo equivoco cui la parola giudizio è stata sottoposta dai secoli: Kant ha lasciato un profondo fossato, nelle sue riflessioni, tra quello che possiamo conoscere e quello che possiamo fare. Il giudizio, per Kant, può essere o teorico o pratico e ciò che in teoria non si potrebbe conoscere o sapere, in pratica è giusto riconoscere per agire e per operare. In questo modo il giudizio diventa un atto della ragione e non della persona. È la persona, invece, che attraverso la ragione scopre se una cosa è buona o è cattiva. Quando la persona verifica che una cosa è buona non può che fare di tutto per aiutare anche l’altro a rendersene conto, a concordare con lui nel giudizio dato.
Per questo le scoperte che ognuno di noi fa, come singolo o come popolo, devono poter avere piena legittimità a livello di proposta sociale e civile: perché ciò che io scopro come bene non è una proprietà privata, ma è qualcosa cui devo partecipare tutti. Allo stesso modo ciò che io scopro come male, come qualcosa che mi impoverisce umanamente, devo poterlo comunicare ai miei fratelli uomini e chiedere – se necessario – che sia evitato da tutti come negativo e depauperante. Quando il Papa dice: “chi sono io per giudicare un gay?” egli afferma con forza che nessuno può definire il posto e il valore di un uomo a partire dal suo comportamento, anche quello sessuale, mentre tutti possiamo e dobbiamo aiutare chi ci circonda a prendere coscienza delle strade che sono bene e di quelle che sono male per la vita. A tal proposito c’è una pratica che passa spesso inosservata, ma che è davvero significativa per comprendere tutto questo: la penitenza.
Quando il cristiano si va a confessare non è mai condannato, ossia definito dal proprio comportamento, ma è sempre invitato a prendere coscienza, a sentire col cuore (il latino “poenitet” appunto) la gravità di ciò che ha commesso. Alla Chiesa non interessa condannare la persona, ma che la persona senta, capisca, tutta la portata delle azioni che ha compiuto. Per questo affida alla persona che si va a confessare un’azione che la renda cosciente del proprio male. La stessa assoluzione, infine, è un gesto con cui la Comunità cristiana distingue il destino della persona dal giudizio negativo sul male che ha compiuto. Questo non toglie le cicatrici che ogni azione ci lascia addosso – per una roba del genere ci vuole l’indulgenza – ma ci restituisce alla vita senza che il male fatto ci determini, con addosso solo la nostra storia e la Misericordia di Dio.
Il Papa che dice di non giudicare è il Papa che non definisce il valore dell’uomo in base a quello che l’uomo stesso compie, è il Papa che non si intromette nel dialogo tra l’Io e Dio, ma che richiama ognuno di noi a verificare e a condividere ciò che è bene e ciò che è male per il cammino di ciascuno. Non giudicare non significa astenersi dal dibattito pubblico sul “bene” e sul “male”, sul “giusto” e sullo “sbagliato”, ma vuol dire rimetterci nelle condizioni giuste per poter guardare tutto, senza che niente ci definisca e ci chiuda.
È la posizione dell’uomo religioso, ed è questo il richiamo instancabile che la Chiesa, in ogni tempo, ha rivolto a tutto il genere umano. Affinchè non si interrompa mai la corsa dell’uomo. Affinchè nessuno perda mai di vista la meta vera della vita: non vincere il trofeo dei “buoni comportamenti”, ma permettere che la propria esistenza non sia mai di ostacolo, con le sue azioni, all’abbraccio buono di Gesù Cristo.