Bellissima. L’intervista concessa da Francesco a padre Antonio Spadaro, gesuita come lui, per La Civiltà Cattolica e pubblicata contemporaneamente su altre 16 riviste della Compagnia di Gesù è una di quelle cose che bisogna leggere e rileggere, e poi leggere ancora. Non solo per capire questo pontefice che per molti continua ad essere imprevedibile, ma per entrare nel suo mondo: nella sua stanza numero 201 dentro il palazzone di Santa Marta, nella memoria del provinciale gesuita alle prese con il governo della piccola porzione di Compagnia che gli era stata affidata, nell’universo di riferimenti culturali e artistici di Jorge Mario Bergoglio, argentino di passaporto e italiano di latte. 



28 pagine dense, in cui sono ripresi tanti dei temi già approntati dal Papa in carica in precedenti incontri e indagini, ma con una sintonia tra intervistatore e intervistato rara. Una confidenza che nasce dalla comune appartenenza e che permette di svelare, in un linguaggio e in uno stile più dotto di quello cui siamo abituati, la semplice complessità di Francesco. 



Ci sono due gesuiti. Uno dei quali è il successore di Pietro. Per la prima volta nella storia. E quello che di inedito si riscontra nelle domande poste senza secchezza, con rimandi e suggestioni comuni, in una fluidità percepibile nella lettura, e nelle risposte ponderate e articolate, colme di saggezza, è proprio quanto di gesuitico è rimasto addosso a Francesco, la sua struttura intellettuale e umana, la componente ignaziana della formazione, l’appartenenza ad una visione cristiana, l’obbedienza ad un “decentramento obbligato”, ad una posizione mai “armata” che è propria di chi con il santo di Loyola ha sempre davanti a sé il “Deus semper maior. 



Intervista bellissima appunto. Succosa quando rivela la stanza dove Francesco riceve con i volti di Cristo, San Francesco, San Giuseppe e Maria che scrutano il visitatore, l’essenzialità degli arredi ma anche dei possessi (i pochi libri, le poche carte, i pochi oggetti). Appetitosa quando introduce alle letture del Papa (Manzoni, Holderlin, Dostoevskij insieme a Dante, Borges, Malègue e Peman), suggerisce le sue predilezioni, classici e realismo, svela i pilastri del suo immaginario musicale e cinematografico (Fellini e Rossellini sullo schermo, Mozart, Beethoven e Bach nelle raffinate esecuzioni di interpreti di lusso). Intima quando mostra la familiarità di Francesco con il dolore, i suoi limiti, le sue fragilità. Dal mal di schiena all’indole irruenta tenuta a guinzaglio, dall’incapacità di vivere da solo alla tendenza all’indisciplina. 

Ma soprattutto un’intervista difficile. Perché qui Francesco non fa sconti e la struttura teologica e pastorale del suo essere e del suo pontificato viene fuori in tutte le sue articolazioni, con fulminee illuminazioni. 

Frasi che rischiarano quanto abbiamo visto e sentito negli ultimi sei mesi di vita della Chiesa. Impossibile riportare tutto, ma se devo scegliere ciò che mi ha colpito come un sventola è quella chiara definizione di se stesso data all’inizio del dialogo: “Io sono un peccatore. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore”. Per poi aggiungere “sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”. 

Aveva già spiegato che l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo era la chiave per comprendere la sua vicenda spirituale e umana. Ma mai con questa chiarezza, con la plasticità dei chiaroscuri caravaggeschi chiamati in ausilio, la confessione di pomeriggi persi nella contemplazione del quadro dipinto dal Merisi, il candore nell’ammettere la totale dipendenza dalla Grazia. Quando si pensa a Francesco ormai non si riesce più a distogliere l’attenzione dal concetto di Misericordia: è la cifra del suo pontificato, la parola d’ordine della sua Chiesa, il termine più ricorrente anche in questa ennesima intervista. Ed è ciò di cui risplende la Vocazione di san Matteo di Caravaggio. 

C’è molto da riprendere nella pagine della Civiltà Cattolica, dalla riflessione sul discernimento a quella sul “sentire con la Chiesa”, meravigliosa spiegazione dal sapore tutto conciliare sull’infallibilitas in credendo del popolo di Dio, dai giudizi severi su una Chiesa che non deve ridursi a un nido protettore della mediocrità, ma riscoprire la prossimità all’uomo, come ospedale da campo dopo una battaglia, all’invito ad un annuncio missionario concentrato sull’Essenziale, sul necessario, su ciò che appassionava e faceva ardere il cuore ai discepoli di Emmaus. E ci sarà tempo per tornare su nodi e problemi affrontati con grande pazienza e consapevolezza dal Pontefice. Ma ciò che rimane ad una prima lettura è senza dubbio il sapore agostiniano del lungo dialogo. Quella tensione alla ricerca costante di Dio, al “trovarlo per cercarlo sempre”. Un’inquietudine che palpita in Jorge Mario Bergoglio e che non abbandona Francesco. 

Un uomo di certezze, ma che ammette che “Dio è sempre una sorpresa” e dunque “non sai mai dove e come lo trovi”. Un uomo che prega con i Salmi e con la corona del Rosario. In sala d’aspetto del dentista o mentre riceve qualcuno. Che qualche volta, nell’ora di Adorazione serale, si distrae o si addormenta. Ma che incessantemente torna con la memoria all’incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. Un uomo che sa che “Tutto è Grazia”. E per questo siamo salvi.  

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