Il 17 marzo del 1865 il missionario francese Petitjean era nella sua chiesa nuova di zecca ad Oura, nella periferia di Nagasaki, frequentata da ricchi commercianti, diplomatici di passaggio e viaggiatori malati di orientalismo. Nuovi fedeli arrivati con la riapertura del Giappone al mondo dopo tre secoli di Pax (si fa per dire) Tokugawa, il lungo periodo di isolamento durante il quale era stato impedito l’ingresso, nel paese, agli stranieri.
Il Sakoku, la politica varata per “blindare” i confini dell’impero del Sol levante, era la risposta degli Shogun alle minacce esterne. L’esigenza era quella di preservare il paese dalla contaminazione occidentale, arrestando l’influenza coloniale e religiosa di Spagna e Portogallo, nazioni attive nei mari dell’est. Insomma per paura, invece che tirare su i muri alla maniera cinese, decapitavano chiunque provasse ad entrare o uscire dall’arcipelago. I cattolici facevano parte del pacchetto: olandesi e inglesi (protestanti) avevano messo in testa alla dinastia Tokugawa che dietro i missionari e le loro croci ci fossero le mire espansionistiche delle due nazioni cattoliche, così che le insinuanti e interessate soffiate provocarono una delle più feroci e cruente persecuzioni della storia della Chiesa.
Dal primo editto di espulsione e divieto di culto, datato 1587, al 1865, anno della revoca della proibizione del proselitismo cristiano, la fiorente comunità cattolica fondata da san Francesco Saverio era stata annientata da crocifissioni di massa, apostasie forzate, stragi di innocenti. Una comunità ridotta alla clandestinità, senza pastori, costretti all’esilio se non alla morte per martirio.
Questo sommario e impreciso (chiedo venia) quadro storico è necessario per capire lo stupore che padre Petitjean provò quando una donna di nome Yuki, a capo di un gruppetto di abitanti della vicina città di Urakami, gli chiese dove fosse posizionata la statua della Madonna. Un’altra donna, raccontano le cronache, aveva rassicurato il missionario ancora timoroso per le leggi proibizioniste in vigore, dicendo, in giapponese, “il nostro cuore e il tuo sono una cosa sola”. Davanti alla Vergine, posta sul muro orientale della Chiesa, quei cristiani usciti alla scoperto da una clandestinità lunga 250 anni, riconobbero la Madre di Dio con in braccio il bambino “Zezù”, il nome storpiato dell’Emmanuele da anni di passaparola in dialetti nipponici, sussurri e segreti confidati di padre in figlio.
Possiamo solo immaginare la commozione di quel buon missionario e quella più dolorosa di chi per la prima volta vedeva la statua di Maria, dopo aver dovuto per secoli pregare davanti l’immagine in ceramica della Biruzen Santa Maruya, la Madonna con le fattezze di Kwannon, la divinità buddista della misericordia opportunamente camuffata per ingannare i persecutori.
Il gruppetto di uomini e donne incontrati da padre Petitjean era solo un drappello dei 10mila “kakure kirisitan”, cristiani nascosti che sbucarono da villaggi e città per presentarsi, nel 1865, ai missionari attoniti che avevano da poco rimesso piede nell’arcipelago nipponico. Uomini e donne che per due secoli e mezzo avevano conservato la fede senza sacerdoti, vangeli, breviari o chiese. Uomini e donne che avevano continuato a credere in Cristo e nel suo corpo la Chiesa, nonostante l’isolamento totale, battezzando da soli i propri figli, balbettando la dottrina e deformando santi, nomi e preghiere. Uomini e donne che avevano resistito in silenzio ai tanti despoti conservando nel proprio cuore ciò che avevano di più caro. Uomini e donne martiri nel Giappone dei Samurai e dello Shogunato.
A loro, ieri, il Papa ha fatto riferimento, nella catechesi in cui spiegava il valore del Battesimo, sacramento che trasmette la Grazia al popolo di Dio, “come un fiume che irriga la terra e diffonde nel mondo la benedizione del Signore”. Ha ricordato quell’esperienza unica nella storia della Chiesa: una comunità sopravvissuta solo con la grazia del Battesimo, cementata dal segreto, unita alle membra del corpo di Cristo. Isolati ma non soli, in virtù dell’appartenenza ottenuta con un po’ d’acqua versata sulla fronte dei bambini dalla mamma, dal padre o dalla nonna. Una fede raccontata ai piccoli come una fiaba, per non farli tradire, e a volte confessata solo in punto di morte, per evitare cedimenti. Un storia, ha detto Papa Bergoglio, da cui possiamo imparare. Cosa?
Non la forza della perseveranza o quella della permanenza. Ma semplicemente la coscienza della nostra identità cristiana, ricevuta con il Battesimo, l’appartenenza ad un Popolo che è discepolo e missionario, la consapevolezza che non ci salviamo da soli ma attraverso una catena in cui ciascuno è “canale” di Grazia per l’altro, in una comunità che non è “cornice” o “contorno” ma possibilità e luogo di salvezza. E magari trovare la forza dei ronin cristiani, i samurai che non trovano più padrone a servizio del quale combattere a causa della loro fede, e che lottarono fino alla morte chiedendo solo di poter professare la propria fede.