Desidero, desidero, desidero. L’epitaffio in mia memoria voglio che reciti: “essere agitato da santa e bella inquietudine”. Fino a ieri sarebbe stata una stramba dichiarazione di agostiniana passione, ma grazie a Francesco, mi sento romanamente e apostolicamente autorizzata a dare disposizioni in tal merito. Non che il trapasso debba avvenire a breve, non sono tecnicamente pronta, ma non si sa mai. Ieri Francesco ha varcato, per la terza volta da pontefice, il portone della Chiesa del Gesù a Roma. Nuovamente nel cuore della città per tornare tra i suoi confratelli e ringraziare il cielo per il neo-santo, amico e compagno di Ignazio, Pietro Favre, salito agli onori degli altari proprio per volere del primo papa gesuita.
No so perché la storia abbia tardato così tanto o lo Spirito Santo abbia mancato l’appuntamento in passato, ma sono felice che si sia deciso anche solo per la possibilità data di ascoltare la bellissima omelia offerta, in dono, da Bergoglio, ieri mattina. Una riflessione impregnata di spirito gesuita, eppure incredibilmente vera e confortante per ciascun credente.
Dio, e poi Dio e ancora Dio. Quando parla ai suoi, (si intende fratelli gesuiti), Francesco si concede il lusso di un più intenso meditare, abbandonandosi persino a lirismi che in genere non si ritracciano nel suo fraseggiare. Sotto il monogramma illuminato dai raggi dorati dell’altare maggiore, simbolo della compagnia, vicino al corpo di Ignazio, Bergoglio il gesuita, ha rinnovato la sua appartenenza all’ordine, riproponendo la missione che avverte come parte costitutiva del suo essere, identitaria ed evangelizzatrice insieme. Molto c’entra l’acrostico di Iesus-Hominum-Salvator, il nome di Gesù per cui schiere di uomini, militanti sotto il vessillo della croce, nei secoli hanno annunciato, testimoniato, vissuto gli stessi “sentimenti” di Cristo.
Una milizia non esente da contraddizioni e peccati, zuffe e tentazioni, ma sempre tesa nel gravitare intorno ad un “centro” che è il Dio “svuotato”. Così ieri Francesco ha parlato di Cristo, come del cuore stesso di Dio, “abbassato”, “svuotato” per amore degli uomini. Il Dio semper maior, che sorprende sempre e orienta, ricordando che il “gesuita” è sempre incompleto, sempre con lo sguardo perso nell’orizzonte eterno, inquieto senza sosta nella ricerca. Ecco la “santa e bella inquietudine”, il cuore perennemente in tensione, che “cerca Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre”. Un cuore che non conosce riposo, ma neanche affanno, perché la pace è nell’inquietudine apostolica, nell’annuncio del kerygma.
Si comprendono molte cose di Jorge Mario Bergoglio nell’ottica proposta alla “sua” compagnia, come nello spazio dedicato a Pietro Favre, prete riformato, teologo appassionato, gesuita del dialogo e della tenerezza, ma soprattutto “uomo di grandi desideri”. Nel ritratto fornito da un discepolo innamorato qual è papa Francesco, il prete savoiardo è diventato un campione dell’inquietudine, un Agostino cinquecentesco, dalla sensibilità indecisa, irrequieta, mai soddisfatta, che non solo si è fatto carico dei suoi desideri, ma li ha riconosciuti.
Credo che questa sia la lezione più grande che il primo compagno di Ignazio, interpretato dal suo più sfegatato ammiratore, dà ai cristiani-ameba di oggi: “riconoscere i propri desideri”, quelli più audaci e impossibili. Come non si può non anelare quello “zelo divorante” che il Papa attribuisce a Favre, quell’aspirazione incessante a tuffarsi “nella acque profonde di Dio”, le acque “che agitano i desideri e allargano il cuore”, il bisogno di “pregare per desiderare”.
Senza desideri non si va da nessuna parte, ha ripetuto anche ieri Francesco. La vera consuetudine cristiana è desiderare. Cosa? Che Cristo occupi il punto capitale della nostra vita, che sia tutto con noi, essenziale e originario, familiare e intimo. Divorante appunto. E dilagante. Perché niente di così grande può essere chiuso nei recinti stretti delle proprie anime: pretende di essere comunicato con dolcezza e fraternità, amore e fantasia. E’ verso siamo peccatori e incoerenti, contraddittori e miseri, ma siamo stati fatti per desiderare. L’idiozia più grande sarebbe smetterlo di farlo.