E’ stato leggermente straniante per me seguire la catechesi di Papa Francesco dalla Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli, dove da lunedì 250 vescovi italiani sono riuniti per la 67esima assemblea generale. Il pontefice in Piazza San Pietro, durante la sua catechesi, parla del ministero episcopale e io mi trovo ad osservare la sua Conferenza episcopale quasi al completo, in riflessione su un altro tema vitale: la vita e la formazione permanente dei sacerdoti.



Li osservo durante le pause caffè, praticamente tutti in completo grigio con croci al collo, teste canute, occhiali e borsa blu da convegnisti che trascinano attraverso la hall, dal bancone del bar alle poltrone in vimini per riposare le gambe. Al novellino sembrano tutti uguali e confesso che persino io qualche volta getto un’occhiata al cartellino rosso e blu che li definisce per nome e diocesi. Eppure ad uno sguardo attento basterebbero pochi dettagli per catalogarli senza paura di sbagliare. Esempio individuare sul golf blu o la camicia bianca la croce indossata.



Quelli che scelgono il metallo povero danno già un chiaro indizio: il legno racconta il mondo di appartenenza, l’idea di ministero come servizio, la semplicità dell’approccio. Si può esser certi che amano del loro popolo soprattutto i poveri, che disdegnano le ostentazioni e che a meno di piccoli handicap transitori sono arrivati a bordo della loro macchina senza autista, in alternativa in treno o addirittura in autobus. Poi ci sono quelli che quando li saluti e ostenti un “eccellenza” ti sorridono e chiedono di dargli del “don”. Sono quelli che adoro all’istante. Ma attenzione, anche altri vescovi, quando tu osservi ossequiosa il cerimoniale, ti fulminano con una premessa tagliente in cui dichiarano di essere “vescovi” e non “principi”. In quel caso capisci subito l’affettazione, il tentativo di umanizzare un ruolo che rimane gerarchicamente superiore, il bisogno di registrare un animo consapevole della propria superiorità al livello dell’interlocutore. In genere apprezzo il tentativo, ma non mi convincono. Possono modificare le regole del galateo ecclesiale ma non annullano il distacco, non riescono ad abbandonare il bizantinismo ieratico per una paternità affascinante ed accogliente. Per fortuna ci sono i tanti buoni parroci che lo Spirito Santo e un pizzico di fortuna hanno trasformato in pastori. L’odore delle pecore lo senti subito.



Prima ancora di conoscerli capisci se uno ha la stoffa per far bene con il gregge che gli è stato affidato. Non faccio nomi, non credo sia utile e corretto fare la lista dei buoni e dei cattivi, ma ci sono alcuni uomini di Dio che non corrispondono in nulla all’idea spesso feroce che si ha del vescovo italiano. Prima di tutto la Conferenza episcopale del nostro paese è un’entità composita, che risente molto dei contesti regionali in cui è suddivisa e che possiede una moltitudine di sensibilità e interessi.

Certo fa sorridere come a volte, con troppo schematismo, osservatori e vaticanisti attribuiscano al corpo intero le opinioni o le caretteristiche di pochi. C’è molta libertà e fermento, e soprenderebbe certi cinici opinionisti il numero alto di vescovi italiani che potrebbe rientrare perfettamente nel ritratto di pastore che Bergoglio continua a delineare in omelie, discorsi e documenti. Ieri ai fedeli richiamava le lettere pastorali di Paolo a Timoteo e Tito, e le doti umane indispensabili per un vescovo, citate dall’apostolo: accoglienza, sobrietà, pazienza, mitezza, affidabilità e bontà di cuore.

Oltre ovviamente a fede profonda e intensa. Andarle a rintracciare, tali qualità, nell’episcopato italiano non è da caccia al tesoro. Ci sono bravi pastori, che devono solo assorbire meglio lo stile episcopale di Francesco: un servizio che nasce “unicamente dalla misericordia e dal cuore di Dio” e non diventa mai “autoritario”, non cede alle “tentazioni della vanità, dell’orgoglio, della sufficienza, della superbia e viene esercitato nell’umiltà. Forse la storia e la tradizione episcopale in certe diocesi è un fardello che rallenta l’assimiliazione all’ideale bergogliano, che poi è quello evangelico. Penso ad alcuni episcopi tappezzati dai ritratti dei vescovi emeriti, che soverchiano in abbondanti velluti e gioielli preziosi, i poveri successori senza lignaggio e fierezza di casato.

Qualcuno avrà pensato di coprire la distanza dalla dignità principesca con un surplus di orgoglio e di superbia, con l’ostentazione di titoli accademici e competenze teologiche. Ma non credo poi che siano in molti. Tra i vescovi che conosco molti conducono una vita sobria, per nulla eccessiva, in genere macinano chilometri per percorrere in lungo e in largo le loro diocesi, ascoltano le tante beghe che vengono riportate dai molti fedeli, e cercano di vivere una fraternità reale con i loro sacerdoti. Ma non è sempre facile. Un simpatico e preparatissimo giovane vescovo mi ha detto che dall’ordinazione avvenuta pochi mesi fa ha aumentato la sua devozione per la “Madonna dell’intelligenza”, che ormai supplica ogni giorno. Così come ogni mattina la sua preghiera abituale è diventata “Dio salva la Chiesa dai cretini”. Mi ha spiegato che sono più pericolosi dei peccatori, e credo che in mente avesse anche qualche ecclesiastico suo confratello. Forse non ha torto.

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