Tor Sapienza è il buco nero in cui s’imbottigliano le contraddizioni e i malanni dell’antica capitale. Tor Sapienza, come tutte le famigerate Torri di Roma, è periferia. Brutta, squallida, anche se basta un raggio di sole che la peggior periferia di Roma acquista una sua struggente bellezza, altro che Milano o Torino. Le Torri sono non luoghi, non quartieri, isolati dal centro, dove il passatempo è lo struscio nei centri commerciali, il muretto davanti ai centri commerciali, il gelato o la pizza nei centri commerciali. Il passatempo per chi lavora, e lavora sodo, sottopagato, e dieci a uno che il lavoro che fa non gli piace, e per chi non lavora, ovvero i più, giovani e meno giovani. Il sabato, trasporti permettendo, si sciama in via del Corso, o a Campo de’ Fiori, per vedere come si vestono quelli che c’hanno i soldi, e comprare in qualche outlet cinese le copie delle grandi firme. La domenica, lo stadio, anche per menare un po’ le mani, per fare qualcosa. E intorno, c’è il resto: spaccio, prostituzione, vagabondaggio, nomadi.
Solo quello? No, ci sono isole felici, scuole, dove insegnanti appassionati fanno anche gli psicologi, gli assistenti sociali, i genitori. Parrocchie, associazioni che scelgono quei non luoghi per portare mente e cuore e braccia. Ma potendo chi ci abita andrebbe volentieri altrove.
Ora, in un posto così il Comune piazza un centro per i profughi. Profughi, non delinquenti, ma si sa, spesso i delinquenti sono clandestini, spesso i delinquenti cercano di mimetizzarsi, e le associazioni di idee della gente sono immediate: talvolta immotivate, talaltra meno, perché c’è quel tale che allunga le mani, quello che ha cercato di prenderti la borsa, quello che ciondola sporco, quello che ha lo sguardo torvo che mette paura. Non importa che siano sensazioni vere, lo diventano. Sono quelli dei Parioli o dell’Olgiata che possono concedersi il lusso di essere generosi, di essere accoglienti, o fingere di esserlo. Hanno dei soldi da dare, e qualche vestito usato. Chi non ha soldi né abiti smessi, deve dare se stesso, e ha altri più prossimi a cui darlo.
In quei posti, un centro profughi è un oltraggio, uno schiaffo alla povertà e all’emarginazione, un di più imposto a chi ha meno da istituzioni lontane, svagate, imprudenti. La gente di Tor Sapienza che protesta, s’imbufalisce perché i profughi vengano deportati altrove, non ha ragione, ma ha delle ragioni. La gente di Tor Sapienza non è tutta razzista, ma può diventarlo. C’è chi soffia sul fuoco, pronto a raccattare voti sul malcontento, sulla rabbia, e la caccia alle streghe straniere viene suggerita, alimentata, offerta come sfogo e vendetta per tutte le richieste non ascoltate, per tutti i diritti offesi.
Che sia Salvini in trasferta o CasaPound o i no global, o i senza patria dei collettivi, non fa differenza. Possiamo dissentire, criticarli, soprattutto blindare le loro strumentali comparsate perché non si trasformino in guerriglia. Ma non è loro la colpa se il tessuto sociale si sta spaccando. Le crepe c’erano da tempo. E lo Stato, che fa, a parte trasferire i profughi più innocenti, che non capiscono, che si sentono due volte umiliati?
C’era un’immagine che si è fermata come istantanea nella mente, dai servizi dei tiggì che seguivano la cronaca violenta di queste ore. Dalle finestre del centro profughi un ragazzo straniero si affaccia, vede i lanci di tutto contro le porte e contro le forze dell’ordine, e filma stranito col telefonino. Come se non riguardasse lui, quella lotta, come se potesse essere semplice spettatore, e non il capro espiatorio, pronto con le valigie per essere messo da qualche altra parte, sempre in periferia, naturalmente, sempre lontano dagli sguardi dei turisti e dei visitatori della Roma Eterna. Lo Stato tampona, ed è suo compito primario, contenere, spostare, in assenza di soldi e di strategie. Gli altri compiti spettano al sindaco e ai suoi uomini. E il sindaco che fa? Non c’è, semplicemente brilla per la sua assenza.
O meglio, c’è sempre quando non è essenziale la sua presenza, c’è sempre dove non è importante che sia, soprattutto se ci sono telecamere pronte. C’è per diffondere buonismo e populismo spicciolo, per dare l’ordine di chiudere un pezzo di centro, di ripittarlo, infiocchettarlo, c’è per girarlo in lungo e in largo in bici (ma con la Panda parcheggiata in divieto, tanto le multe non le paga), c’è per farsi fotografare in san Pietro e convincere il papa che è sulla sua stessa lunghezza d’onda, con gli ultimi, i poveri, gli sfruttati. Poi il papa manda l’Elemosiniere a distribuire denaro per coperte, cibo, e perfino le docce nei bagni del Colonnato. Lui celebra matrimoni gay, perché Roma sia la capitale della libertà. Lui snobba le famiglie coi passeggini che chiedono una detrazione per il terzo figlio e oltre, lui addossa i problemi alle amministrazioni precedenti, lui è a Milano quando la città si allaga. Ma lui è lì, ancora, nonostante la pena, per i più miti, l’astio, dei più sfiancati, perché qualcuno permette che ci sia.
E qui toccherebbe che il nostro amato Premier si mettesse una mano sulla coscienza. Va bene che il Pd se si va a elezioni comunali si prende una scoppola a memento di ulteriori scelte sbagliate, ma varrebbe la pena rischiare, almeno per l’onore. Renzi, mandalo a casa, Marino. Abbi il coraggio di sciogliere il governo di una capitale sfortunata, che si regge sul suo passato, sul Vaticano, su sperduti personaggi di spettacolo che qua e là fanno ancora capolino. Magari i romani si placano, e votano un’altra volta Pd, se ti muovi subito. E stavolta, con un nome migliore.