Alla fine il decreto Salva Roma si farà. Lo ha annunciato ieri in serata il premier Renzi alla direzione nazionale del Pd dopo che il sindaco Ignazio Marino aveva minacciato di bloccare la città se il provvedimento non fosse stato approvato. “Venerdì – ha confermato il premier – il Governo approverà il decreto sugli enti locali con le norme sul Comune di Roma”. Per l’on. Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano dal 1997 al 2006, si tratta di una cosa profondamente ingiusta. “Se Renzi vuole essere nei fatti così tonico come lo è stato nelle parole potrebbe partire proprio da qui. Vuole ridurre gli sprechi e ricavare i capitali per tagliare il cuneo fiscale, vuole abbassare l’Irap? Bene, cominci dalla capitale, dalla città simbolo per lanciare un segnale di cambiamento”.
Trova accettabile che il sindaco Marino minacci lo “shutdown” delle strutture comunali?
Le dichiarazioni del sindaco Marino mi ricordano analoghe dichiarazioni fatte in una circostanza sicuramente meno drammatica dal sindaco Veltroni che era in carica insieme a me.
A cosa si riferisce?
Era successo che il governo Berlusconi aveva tagliato i trasferimenti alle città e Roma subiva un taglio di 200 milioni. Senza aver previsto una data, Veltroni minacciò di non tagliare più l’erba dei prati, di non pagare i vigili urbani, di chiudere gli asili nido e via dicendo. Mi ricordo anche quel che gli replicai.
Cosa disse a Veltroni?
Gli risposi facendo due conti su una voce del suo bilancio confrontandola con quello del Comune di Milano. Il sistema dei trasporti di Roma – Atac e Cotral – aveva un debito di 198 milioni di euro. Quando nel ’97 fui eletto sindaco di Milano ereditai dall’amministrazione precedente 154 miliardi di lire di deficit dell’Atm (l’azienda del trasporto pubblico locale, ndr). Bene, dopo 9 anni l’abbiamo lasciata con 78,5 milioni di euro di utile. Ma già l’anno successivo, il ’98, l’azienda era tornata in pareggio. I casi di amministrazioni locali in situazioni di dissesto purtroppo sono numerosi. Però dietro queste situazioni c’è sempre una causa.
È giusto che a pagare siano tutti gli italiani?
Chiedere allo Stato di intervenire quando la situazione non è episodica, ma atavica come nel caso di Roma è profondamente ingiusto. Ci trovassimo di fronte a una calamità sarebbe giusto che a farsene carico fosse l’intera collettività nazionale. Oppure, in positivo, potrebbe esserci un evento straordinario che giustifica una spesa straordinaria anche di parte corrente. Questo però non è il caso di Roma, dove c’è un bilancio che tutti si passano con queste passività enormi. A un certo punto, diceva Samuel Beckett, ci dev’essere pure un’ultima volta anche per l’ultima volta.
Se fosse al posto di Renzi come si comporterebbe di fronte al caso Roma?
Se Renzi vuole essere nei fatti così tonico come lo è stato nelle parole, potrebbe partire proprio da qui. Vuole ridurre gli sprechi e ricavare i capitali per tagliare il cuneo fiscale, vuole abbassare l’Irap? Bene, cominci dalla capitale, dalla città simbolo per lanciare un segnale di cambiamento.
In che modo?
Potrebbe dare a Roma i soldi che servono per pagare l’essenziale a patto che il comune garantisca questo “prestito”con il suo patrimonio. Per cui se non restituisce i soldi allo Stato, la cassa che gli viene anticipata, i suoi beni vengono venduti all’incanto. Renzi potrebbe dire che la capitale deve pagare i suoi conti come fa qualsiasi impresa, e cioè con le proprie risorse, non con quelle dei fornitori, dei clienti o dei dipendenti. Se la ditta Albertini perde soldi, per un po’ può tenere, ma se continua a farlo per decenni porta i libri in tribunale oppure la proprietà ripiana il deficit oppure ancora per tenere sotto controllo la situazione può vendere dei cespiti, dei patrimoni. Ma patrimoni della ditta Albertini non di altri. Bisogna dire anche un’altra cosa.
Prego.
È vero che una cosa è la competenza e una cosa la cassa. È vero che se non hai liquidità non puoi pagare i servizi. Ma il comune di Roma ha delle proprietà, immobiliari e mobiliari, delle società municipalizzate, può garantire questo finanziamento straordinario con la vendita o con l’ipoteca dei suoi beni patrimoniali.
Il comune di Roma dispone di asset importanti, come il pacchetto di controllo dell’Acea: lei, nella situazione di Roma, metterebbe in vendita quella quota e gli altri asset liquidabili prima di chiedere aiuti?
Non dico di vendere il Colosseo, ma gli immobili di proprietà comunale, che sono tanti, le quote di partecipazione delle municipalizzate dei trasporti, dei rifiuti, dell’acqua. Nessuno li vuole? Li venda a valore di realizzo. Non il frutto di una perizia ma “ghe fu l’asegn”. Anche noi per vendere le farmacie comunali facemmo un’asta da cui incassammo ben oltre 100 miliardi di vecchie lire. Quei soldi ci hanno consentito di non applicare l’addizionale Irpef, facendo risparmiare ai milanesi 120 milioni di euro all’anno di tasse dal ’98 al 2006, oltre ad aver permesso di realizzare una serie di opere pubbliche.
Se oggi fosse ancora sindaco di Milano come guarderebbe al salvataggio statale del comune di Roma?
Non mi piacerebbe affatto. Perché il comune di Milanoai tempi in cui lo amministravo aveva una situazione florida. Anche il caso dei derivati, che mi viene imputato come una leggerezza, un errore, ha portato alle casse comunali un utile di 950 milioni. Una “truffa” che è costata al comune un attivo di 950 milioni di euro! Chiaro che un amministratore che amministra discretamente la sua società non è contento che altriamministratori che amministrano male godano di un trattamento privilegiato. A questo proposito mi viene in mente anche un altro fatto…
So a cosa si riferisce: alla possibilità di non inserire nel patto di stabilità le spese per investimento.
Esatto. Nel ’98, quando ero presidente del comitato dei sindaci metropolitani, sottoscrivemmo con altri comuni il patto di stabilità. In quell’occasione avevo proposto all’allora ministro del Tesoro Ciampi la “Maastricht dei Comuni”, la possibilità cioè da parte dei comuni virtuosi che avevano bilanci in positivo e un rapporto debito-credito adeguato, di superare il patto di stabilità nelle spese per investimento. Proprio in ragione delle condizioni dei loro bilanci rispetto ai comuni che invece erano “viziosi”. Quelli sì dovevano essere censurati. È come se invece di ridurre il grasso si riducesse il muscolo! Il corpo non funziona bene, non si può fare la maratona, non si sollevano pesi. L’amministratore virtuoso è un po’ come un atleta, mentre quello vizioso è un po’ un “ciccione” che porta in giro un sovrappeso che non serve a niente se non a danneggiare se stessi.