A seguito del comunicato stampa della Giunta Zingaretti, dove si minimalizza la decisione di somministrare la RU486 in day hospital, occorre fare chiarezza sulla legislazione applicabile. Le motivazioni con cui si vorrebbe legittimare tale pratica si compongono infatti di una serie di informazioni “taglia e cuci”, con l’obiettivo neanche troppo nascosto di normalizzare la procedura abortiva farmacologica, che – almeno in Italia – normale non è.



Ciò che si fa passare è che una volta approvata la Ru486 nasca automaticamente un diritto a poterne fruire come metodo abortivo senza limiti. Sfugge però a chi lascia intendere tutto questo che, invece, secondo la legge italiana l’aborto non è un diritto illimitato ma un bilanciamento tra interessi contrapposti: quello della vita nascente e quello alla salute psico-fisica della gestante. Dal bilanciamento di questi due interessi la legge 194 ha previsto una serie di pesi e contrappesi finalizzati a rendere piena consapevolezza sulla drammatica interruzione di una vita umana e sulle ripercussioni di ordine fisico e psichico che essa comporta nei confronti di chi decide. Questo è il senso e il ruolo dei consultori (che peraltro il presidente Zingaretti ha sentito il dovere di richiamare), dei dialoghi di dissuasione, del periodo di riflessione: tutti passaggi delicatissimi e necessari, stabiliti dalla legge 194, che – piaccia o non piaccia – rimane unica fonte normativa nella somministrazione di qualunque farmaco o tecnica abortivi.



C’è poi una seconda informazione distorta. Si fa grande confusione sul fatto che la legge 194, non prevedendo espressamente il ricovero ordinario, consentirebbe che la Ru486 possa essere somministrata in day hospital (con evidenti rischi per la donna che, una volta uscita, nella fase dell’espulsione dell’embrione-feto potrebbe incorrere in emorragie). Tale alternativa discenderebbe dal fatto che la legge 194 parla di ricovero fino all’interruzione della gravidanza e non fino all’espulsione del feto. Il che però è del tutto ovvio, in quanto con l’aborto chirurgico (unica ipotesi prevista dalla legge 194, datata 1978) il momento dell’interruzione della gravidanza e il momento dell’asportazione del feto coincidono.



E nessuno si sognerebbe di pensare che una volta riscontrata la non vitalità del feto in utero, prima della sua asportazione, la donna possa essere dimessa in quanto ormai “interrotta” la gravidanza. Dunque è fuorviante il tentativo di far intendere che – secondo un’interpretazione letterale della 194 – la Ru486 potrebbe essere somministrata in ospedale e poi, constatata la non vitalità dell’embrione-feto, la donna possa uscire ed espellere l’embrione-feto nel bagno di casa in totale solitudine. E si noti che questa interpretazione non è mossa da alcun intento ideologico e libertario, ma solo dal cinico interesse a diminuire i costi della procedura abortiva, riducendo i giorni di ricovero e, così, normalizzando – cioè rendendo una pratica fai da­ te – l’aborto farmacologico.