“Entrambi hanno guardato il mondo con uno sguardo profetico”: un “mistico del ‘900” Karol Wojtyla, un “pastore del gregge”, lungimirante come nessun altro, Angelo Roncalli. “Solo da uomini profondamente radicati nella tradizione della Chiesa possono avverarsi le novità più sconvolgenti”. Alla vigilia della doppia canonizzazione così fortemente voluta da papa Francesco, che sarà concelebrata anche dal papa emerito Benedetto XVI, parla Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia, creato cardinale da papa Bergoglio nel febbraio scorso e attuale vicepresidente della Conferenza episcopale italiana.
Eminenza, di ritorno da Rio de Janeiro papa Francesco definì la canonizzazione comune di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II un “messaggio alla Chiesa”. Cosa vuol dire per lei tale “messaggio”?
Oltre ai dati oggettivi della santità dello loro vita, vi è un legame profondo fra i due pontefici. Uno è stato l’ispiratore e l’iniziatore del Concilio e l’altro, assieme a Paolo VI, è stato l’attuatore della grande assise sinodale. Entrambi hanno guardato il mondo con uno sguardo profetico e, tutti e due, seppur in modo diverso, sono stati dei grandi evangelizzatori che hanno visto nel Concilio un momento importantissimo nella vita della Chiesa.
Quel Concilio di cui Giovanni Paolo II disse che avrebbe rappresentato la “bussola” per il nuovo millennio…
Sì: uno strumento, donato dello Spirito Santo, per non perdere l’orientamento nel mondo contemporaneo. Questa è la grande eredità conciliare che ci lasciano i due pontefici, che si lega, indiscutibilmente, con il messaggio che entrambi hanno lasciato alla Chiesa: ovvero, la capacità di discernere “i segni dei tempi”; la volontà di andare verso il popolo di Dio; e lo slancio missionario con cui annunciare il Vangelo a tutto il mondo.
Lei ha dichiarato che Wojtyla “aveva il pensiero continuamente fisso a Dio”. Cosa intende dire esattamente con questo? Vuole ricordare un episodio particolare?
Quando lo incontravo, mi ascoltava per la maggior parte del tempo con gli occhi chiusi, sembrava assorto in se stesso. Ma alla fine del colloquio, durante il quale difficilmente ti interrompeva, riassumeva in modo esatto tutto ciò che era stato detto. In tutto ciò che faceva, la sua mente era assorta in Dio. Giovanni Paolo II è stato, indubbiamente, un grande uomo di preghiera. Un mistico del Novecento che sin da bambino aveva affidato la sua vita totalmente al Signore.
Wojtyla è stato uno dei Papi più coinvolti nelle vicende del XX secolo. Come può un uomo con “il pensiero continuamente fisso a Dio” cambiare la storia?
Diceva don Divo Barsotti che i veri rivoluzionari sono i mistici. Basti pensare a San Francesco, il giullare di Dio, che, seppur portatore di una mistica specialissima, ha radicalmente cambiato la storia dell’umanità e della Chiesa. Oppure a Gandhi. Il quale ha cambiato la storia coloniale dell’India, pregando e digiunando in continuazione. O per fare un altro esempio, a Madre Teresa, che era certamente una donna di azione, ma che al mattino passava molte ore in contemplazione e in preghiera davanti al santissimo sacramento. Di questo sono testimone diretto, avendola vista quando andai a farle visita a Calcutta…
Così Karol Wojtyla.
Sì. Giovanni Paolo II, con la sua vita e con la sua opera di apostolato, ci rammenta chi è l’unico e autentico Signore della Storia e soprattutto ci fa capire la forza inesauribile della preghiera. In modo pressoché unanime, tutti gli storici ormai assegnano a Giovanni Paolo II un ruolo determinante nei grandi rivolgimenti che hanno interessato l’Europa dell’Est, a partire dalla Polonia. Fatto incontrovertibile, ma è altrettanto indiscutibile che l’opera più importante di papa Wojtyla fu, prima di tutto, un’azione di incessante e continua preghiera, pellegrinaggi, rosari e celebrazioni eucaristiche.
Lei ha ricordi personali anche di Giovanni XXIII. Chi è stato per lei Angelo Roncalli?
Nel 1959 venne organizzata una visita del Seminario Minore e Maggiore di Firenze a Papa Roncalli. Ci accompagnava il cardinale Ermenegildo Florit. Appena vide la sala piena di giovani seminaristi (eravamo quasi in 300), consegnò il foglio del discorso all’assistente che gli era accanto e parlò “a braccio”. Iniziò così: “Voglio dirvi alcune parole che vengono dal cuore, più importanti per voi di quelle scritte sulla carta… Questa stupenda giornata di primavera ci porta il sorriso dei colli fiorentini…”. Poi ci raccontò la sua esperienza da seminarista con aneddoti ricchi di sapienza. Indubbiamente, si trattò di un’esperienza appassionante e, per allora, estremamente nuova. Giovanni XXIII aveva dei caratteri di umanità che colpiva profondamente il cuore e l’immaginazione di ogni giovane seminarista. Era autenticamente un padre nella fede. E inoltre, nonostante la sua profondissima esperienza in campo internazionale, di cui tutti noi eravamo consapevoli, dimostrava una dimensione pastorale di grandissima levatura. Papa Giovanni, al di là della bonomia del suo aspetto e dell’affetto istintivo che emanava la sua figura, era senza dubbio il pastore del gregge. E noi, indiscutibilmente, eravamo una parte del suo gregge.
Secondo lei c’è una affinità tra Francesco a Giovanni XXIII? Come la definirebbe?
Entrambi hanno fatto dono alla Chiesa di quella grande virtù che è la speranza. Il discorso di Papa Roncalli per l’apertura del Concilio Vaticano II, la sera dell’11 ottobre 1962, è un inno alla fiducia in Dio, contro i vari profeti di sventura. Così papa Francesco, con i suoi interventi spontanei e profondi, riesce a raggiungere anche i cuori più desolati e ad infondere coraggio.
Un anelito di speranza che si concretizza, per esempio, nel comune sforzo per la pace, al di là delle ovvie differenze che si possono rimarcare tra la stesura di un’enciclica – la Pacem in Terris, per Giovanni XXIII – e la redazione di una lettera ai leader del G20, per Papa Francesco. Come ho già avuto modo di scrivere su l’Osservatore Romano, quest’incontro ideale tra Giovanni XXIII e Francesco avviene su un elemento estremamente importante che non solo collega l’opera di questi due papi ma fornisce un significato profondissimo al pontificato attuale. È soprattutto nell’eredità e nella piena attuazione del Concilio Vaticano II che si incontrano i due vescovi di Roma. Nell’arco di 50 anni, infatti, quell’assise non solo non ha finito di dare i suoi frutti ma necessita ancora di una piena comprensione nel segno della comunione e dell’unità della Chiesa.
Loris Capovilla, in una recente intervista, ha detto che Giovanni XXIII era un “prete all’antica”. Secondo Lei cosa significa?
Era all’antica talvolta nel modo di esprimersi e anche in quello di vestirsi: indossava sovente il camauro. Fece restaurare la Torre di San Giovanni in Vaticano perché anche lui, come i suoi predecessori del rinascimento, voleva lasciare un segno concreto del pontificato. Solo da uomini profondamente radicati nella tradizione della Chiesa, possono avverarsi le novità più sconvolgenti. Anch’io penso fosse un prete all’antica. Era di quei pastori, come il cardinale Elia Dalla Costa, solidamente formati alla scuola del Concilio di Trento, avendo avuto come riferimento colonne del calibro di san Carlo Borromeo e san Gregorio Barbarigo. Roncalli poi, aveva trovato un punto di riferimento nel suo vescovo di Bergamo, Giacomo Radini Tedeschi, molto attento alle problematiche sociali.
Eminenza, cosa vuol dire essere santi oggi?
Per un cristiano, ancor più per un prete, essere santi vuol dire essere profondamente radicati in Dio, con una totale oblatività nei confronti dei fratelli. Esser santi vuol dire anche avere la capacità di comprendere il mondo e le sue attrattive con la mente e il cuore ben saldi nell’insegnamento del Vangelo. Essere santi può anche volere dire di avere il coraggio di testimoniare la propria fede nei vari ambienti in cui la vita ci pone ad operare.
In un suo recente intervento Lei ha scritto che “senza la consapevolezza di questa presenza carnale (di Gesù) si rischia di ridurre il cristianesimo a una religiosità dal vago sapore sociale o, all’opposto, si arriva a costringerlo in un angusto orizzonte di valori e di precetti morali”. Dove passa la strada di quella “consapevolezza”?
È fondamentale riscoprire con autenticità, e non solo a parole, la centralità della persona. La persona non è certamente riassumibile in un ideale, ma è un’esistenza concreta che agisce, ha dei bisogni, costruisce relazioni e sprigiona amore. Al centro della nostra fede, infatti, c’è il grande mistero dell’incarnazione e non un insieme di norme o di vincoli solidaristici. Parafrasando una vecchia citazione, che va ovviamente riadattata ai tempi odierni, si potrebbe dire che “occorre andare verso l’uomo, al di sopra dell’uomo, e non al benessere”. Oggi viviamo, infatti, in una società sfibrata, dominata da una mentalità individualista e da una “cultura dello scarto” – come l’ha chiamata papa Francesco – che emargina i più deboli, si dimentica dei malati e abbandona i poveri. A questa mentalità utilitarista che cancella “i piccoli” e rimuove lo scandalo della sofferenza, occorre rispondere con la straordinaria, gioiosa e rivoluzionaria bellezza del Vangelo. Tutti siamo chiamati ad essere custodi di questa umanità ferita, chinandoci con amore materno e spirito paterno verso i più poveri e i più deboli, perché in loro si trova sempre il volto di Cristo.
(Federico Ferraù)