Per papa Francesco uno volti più cari è quello della suora, una santa donna, che gli ha insegnato il catechismo. Una di quelle figure che quando balzano alla mente scatenano sempre un sorriso. A detta di Bergoglio è sicuramente in Paradiso, e se lo giura lui c’è da crederci. 

Il ricordo è venuto fuori ieri, durante la catechesi del mercoledì, quando ai 33mila fedeli che sfidavano l’afa romana e il cielo grigio su Piazza San Pietro, ha spiegato il concetto di “appartenenza” alla Chiesa. L’ottima suorina è la testimonianza, per il pontefice, che nessuno diventa cristiano da sé. Che ci diciamo cristiani proprio perché apparteniamo. Identità uguale appartenenza. Alla Chiesa, ha aggiunto. Sembra un’ovvietà, ma non lo è. 



Ha persino illustrato con un esempio terra terra cosa intendesse. “Se il nome è sono cristiano (e a me viene facile vista la coincidenza con il nome originale!), il cognome è appartengo alla Chiesa. Un’appartenenza sottolineata ed espressa anche da Dio che quando si deve certificare non si appella “Onnipotente” ma sceglie il più burocratico “Io sono il Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe…” (cfr. Es 3;15). Se il Signore, in pratica dovesse presentarsi oggi a qualcuno, non direbbe “Io sono Dio”, (e diciamolo è l’unico autorizzato a farlo), ma “Io sono il Dio di Cristiana, il Dio di Angelo, il Dio di Francesco, il Dio del sig. Rossi, il Dio della signora Bianchina.. etc. Un elenco infinito di persone ben precise, di uomini e donne che nei secoli, anzi nei millenni hanno ingrossato le fila del Popolo di Dio.



Siamo tutti dentro un patto, l’alleanza stipulata dall’Onnipotente con i nostri padri. Siamo in un flusso di storia e vissuti, capaci di relazioni che attraversano il tempo, e che ci precedono. Per questo, se ci possiamo dire cristiani, dobbiamo dire grazie, non solo alla catechista che ci ha insegnato le parabole di Gesù o i sette peccati capitali, ma anche al parroco della prima comunione, all’insegnante di religione, alla perpetua che ci ha fatto accendere le candeline davanti la statua della Madonna, al nonno che allestiva con noi il presepe, alle religiose che ci facevano fare il mese di maggio (le mie erano salesiane), al capo scout che radunava le coccinelle. 



Dobbiamo riconoscere che senza di loro non saremmo nulla. “Nessuno – ha urlato Francesco – diventa cristiano da sé”. E’ chiaro? Non siamo elementi geneticamente modificati. L’ho già scritto, ma lo ripeto insieme a Bergoglio “non siamo prodotti da laboratorio”, ma abbiamo bisogno di un padre, Dio, e di una madre, la Chiesa. Tutto ciò che noi riconosciamo come pratica e atto cristiano è giunto a noi tramite una tradizione, riconoscibile e rintracciabile. Possiamo tornare indietro sino ai primi 12 seguaci del maestro: di volto in volto, di nome in nome, di luogo in luogo. E’ una partecipazione ancorata. Una appartenenza avvolgente. Un filo ininterrotto di fede. 

“Nella chiesa non esiste il fai da te” – ha ripetuto il Papa – “non esistono i battitori liberi”. Si cresce insieme. Infatti il pronome più usato è noi, il noi ecclesiale. Quello che ha esaltato, spiegato, rispolverato il sant’uomo di Benedetto XVI. E Papa Francesco gliene dà atto. Non è solo un vezzoso omaggio. Il rischio, o meglio la tentazione, nella postmodernità in cui dilaga l’Io ipertrofico, è percepirsi sempre, abbastanza astuti e superbamente posizionati, al di sopra e al di fuori di ogni comunità. Si privilegia sempre il rapporto personale, diretto, immediato, in cui l’Io ha un posto distaccato e privilegiato. Così nella relazione con Dio si bypassano tutti i rapporti precedenti per correre ad intrufolarsi in un legame che apparentemente diventa esclusivo, ma che con il tempo risulta evanescente ed autoreferenziale. Il cristiano ha bisogno fisico della comunione e della mediazione della Chiesa. Persino l’eremita necessita della “compagnia” ecclesiale, amando Dio non può fare a meno di amare i fratelli. Lezione importane quella di Francesco. Aiuta a ritrovare i riferimenti, a rimettere a posto i tasselli, e a ripensare a quel volto che per primo ci ha fatto innamorare di Cristo. Il mio è molto caro, e anche lui sicuramente è in Paradiso. 

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