Sono giorni che le principali testate giornalistiche tentano di risolvere il rebus del futuro di papa Bergoglio. Per mesi, infatti, i media sono stati fortemente convinti che il Pontefice meditasse una fine ratzingeriana per il suo ministero, ossia il ritiro anzitempo. Ne aveva parlato lui stesso in diverse occasioni, arrivando addirittura ad affermare: “Credo che Benedetto XVI non sia un caso unico. Lui ha aperto una porta, ed è la porta dei Papi emeriti: cosa succederà non possiamo dirlo, Dio lo sa, ma la porta ora è aperta”. Poi, nelle ultime ore, tutto è invece sembrato cambiare: dapprima la serie di “indisposizioni” di Francesco ha fatto temere seriamente per la sua salute, in seguito la battuta pronunciata ad un gruppo di giovani della Diocesi di Roma sulla “tomba” come futuro definitivo e certo del Papa ha suscitato addirittura l’ipotesi di una fine imminente del pontificato. 



Il mistero, insomma, si infittisce e il dibattito cresce tra chi è più propenso a credere che il Papa tra non molto si dimetterà e chi – più prosaicamente – suppone come probabile la morte di Bergoglio ancora felicemente regnante. Ma quale sarà la verità? E, soprattutto, perché è così importante conoscerla?



Su questo secondo quesito l’orientamento è abbastanza chiaro: sapere le reali intenzioni di Bergoglio renderebbe più immediata la comprensione dell’attuale clima all’interno del Vaticano e fornirebbe un’importante indicazione sul futuro della stessa istituzione petrina. Tuttavia queste sono congetture mediatiche, deduzioni giornalistiche prive dell’unico contenuto che seriamente potrebbe far comprendere le reali intenzioni di Francesco: la fede. Benedetto XVI, infatti, non si è dimesso a causa di dinamiche politiche o ecclesiastiche, bensì per una decisione maturata all’interno di una relazione di fede. Il Papa emerito, con il suo gesto, ha strappato la Chiesa e il papato dalle logiche umane per riconsegnarli al luogo sorgivo della loro identità: la volontà di Cristo. Quella stessa volontà che Ratzinger ha cercato di scrutare e di conoscere non attraverso il diritto canonico o gli editoriali di Repubblica, ma attraverso il silenzio e la preghiera. 



Il Vescovo di Roma, in effetti, non è il capo di una multinazionale dotata di regolamento interno che l’ultimo presidente di turno ha deciso di riformare, bensì un uomo chiamato da Dio a svolgere un servizio di carità a tutti i cristiani nel mondo. Sarà quindi nel rapporto con Dio che il “chiamato” stabilirà l’evolversi delle proprie azioni e delle proprie decisioni. Ogni altra congettura squalifica non solo il ruolo del Papa, ma anche la storia e il compito di ognuno di noi. Ciascuno, infatti, è chiamato da Dio ad una missione. Questa chiamata ci raggiunge dentro la realtà e la trama di tutti i giorni, al punto che la nostra vocazione prima ancora di essere scelta deve essere anzitutto scoperta. 

Per il fatto che esistiamo, dunque, Dio ci ha affidato un posto, una responsabilità cui soltanto noi possiamo rispondere e dare seguito. Papa Francesco, nel dialogo con il gruppetto di giovani della Diocesi di Roma, ci ha ricordato − molto semplicemente − che la modalità attraverso cui siamo chiamati a costruire il Regno di Dio può evolversi, ma non può mai mutare nella sua essenza. Un uomo sposato può essere chiamato a prendersi cura di sua moglie malata o a perdonarle una brutta infedeltà, ma non può mai mettere in discussione che il rapporto con quella donna sia la modalità attraverso cui la propria vita è chiamata a compiersi. Così un prete può svolgere il suo ministero con i carcerati o su una sedia a rotelle, ma − se la sua chiamata è autentica − non può mai essere chiamato a ridiscutere l’impegno celibatario cui Dio lo ha chiamato. 

Nella vocazione, pertanto − in ogni vocazione − c’è un elemento di definitività che non muta, mentre invece muta l’espressione di quella definitività, espressione che matura progressivamente all’interno della relazione con Dio, con Colui che ci ha chiamato dentro una certa strada. Il Papa sarà Papa fino alla tomba, ma il modo con cui esprimerà questa sua identità potrà evolversi fino ad assumere − come per Benedetto − connotati nuovi e inediti. Il punto, dunque, non è la personalità di Bergoglio o le sue indisposizioni: il punto è la vocazione. Fantasticare sulla fine di questo pontificato o mettere in contrapposizione le diverse affermazioni del Papa, quindi, significa essere tremendamente confusi su di sé, sul fatto che ciascuno sia interpellato a percorrere una via definitiva dove giorno dopo giorno maturino espressioni, gesti e responsabilità diverse. Se la vita non fosse questo, Dio sarebbe utile solo all’inizio della strada come punto di partenza, mentre tutto il percorso successivo sarebbe in balia di strategie e performance individuali che ci condannerebbero soltanto al cinismo più bieco. Quel cinismo che certi commentatori vorrebbero animasse le scelte e gli orientamenti del Papa. In modo tale da conoscerlo, da prevederlo, da gestirlo, in modo tale che la sua presenza non disturbasse più il quieto sonno dell’intellighentia occidentale. Quel quieto sonno che ogni vocazione integralmente vissuta interrompe inesorabilmente. Rimettendoci nudi di fronte al dramma del vivere, di fronte all’insopprimibile desiderio di conoscere e di sapere il perché del nostro stesso essere al mondo. 

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