Alla fine, la grande vicenda politica del Partito democratico sul “caso Roma” e sull’affare Marino è finita con una processione di 26 consiglieri comunali. 19 del Pd e 7 di altri partiti minori, davanti al notaio, pronti a firmare le dimissioni per liquidare la giunta di Roma, senza neppure un dibattito in Consiglio comunale, che in questo modo si è dissolto come neve al sole ed è pronto per essere commissariato.



Ha ragione l’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, che ieri mattina parlava di una “farsa”. Se questa sarebbe la politica, occorre dire che, in Italia, l’antipolitica non solo è destinata a vincere e ad affermarsi, ma a dettare la storia dei prossimi anni della Repubblica, sulle macerie che ha creato la cosiddetta politica di questi anni.



Tutta la gestione complessiva fatta dal Pd nella questione di Ignazio Marino, dopo l’esplosione di Mafia capitale, porta a una storica sconfitta delle istituzioni democratiche e con tutta probabilità avrà ripercussioni che andranno ben oltre la sala del Campidoglio.

Restando solo a Roma, i dati di sondaggi differenti convergono in modo quasi inquietante su alcune valutazioni. La prima, se si vuole difendere e parlare di partecipazione democratica, è che alle urne è intenzionata ad andare una percentuale valutata tra il 47 e il 48 percento dell’elettorato. Un autentico crollo della partecipazione, che a Roma, nelle comunali superava sempre il 70 percento.



La seconda valutazione è quella del dilagare, letteralmente, del Movimento 5 Stelle, che è accreditato di oltre il 33 per cento, quasi il doppio del 18 o 19 percento che prenderebbe il Pd, con la spina nel fianco di una “lista Marino” che si attesterebbe intorno al 9 percento. Poi c’ è una serie di liste, da quella di “Noi con Salvini”, valutata intorno al 4 percento, fino a quelle di Fratelli d’Italia, Forza Italia e “La lista di Marchini” che porterebbero a casa dall’8 al 10 percento circa.

In definitiva, macerie politiche con gli alfieri della cosiddetta antipolitica che stravincono, dispersione di ogni opposizione credibile e il Pd che svela tutta la sua inconsistenza nella gestione della vicenda, palesi contraddizioni interne e una vocazione di “pratiche sbrigative” da risolvere con metodi ben lontani dalla prassi democratica.

Se si avesse la pazienza di ricostruire, mese dopo mese, la questione Marino, si potrebbe vedere che dopo Mafia capitale, il “marziano” è passato da eroe da difendere contro la corruzione strutturale della capitale, quasi un “santino” da distribuire sulle bancarelle, a un “falso” che bada soprattutto all’affermazione personale e che finisce addirittura indagato, nascondendolo ai compagni, per la vicenda della carta di credito e delle sue spese di rappresentanza. Mafia-capitale diventa in questo caso una montagna che partorisce un topolino. Sapendo anche che il fatto che chi è interrogato come persona informata sui fatti, nel momento che si apre un’inchiesta, diventa d’ufficio un “indagato”, un “avvisato di garanzia”, per sua tutela.

In realtà, tutta la vicenda è una montagna brutta e difficile da scalare, perché la fattispecie giuridica processuale dell’avviso di garanzia sembra valida per il Pd a “giorni alterni”: a volte è una garanzia di indagine corretta, a volte, come in questo caso, pare una condanna preventiva. Ed è quindi il Pd che dovrà giustificare il suo atteggiamento.

Se il quadro complessivo della politica romana e nazionale esce a pezzi da questa giornata e dalla lunga vicenda, quello che appare più inquietante è il dibattito e il confronto che si svolgerà dentro il Partito democratico. Nel momento in cui ha saputo di essere liquidato, Marino in conferenza stampa ha detto sostanzialmente che il Pd non è democratico e attribuisce a Matteo Renzi, il segretario e presidente del Consiglio, il ruolo di mandante della sua cacciata dal Campidoglio.

Il presidente del Consiglio e segretario del Pd ha risposto che Marino non è vittima di una”congiura di Palazzo”, ma del fatto di aver perso contatto con la città.

Sono schermaglie che ritorneranno nelle prossime settimane e soprattutto in campagna elettorale. Ma intanto nel Pd che cosa accadrà? Sarà in grado Renzi di normalizzare tutto ? Perché qui non si tratta solo di tenere a bada la famosa minoranza. A quanto si dice, Renzi aveva chiesto da tempo di “liberare il Capidoglio” e il presidente del Pd Matteo Orfini si è incaricato di gestire e commissariare il partito, prima tutelando Marino (forse un po’ troppo) poi “pugnalandolo” alla fine. E’ difficile, con i risultati che ci si ritrova in questa serata di fine ottobre, pensare che tra Orfini e Renzi tutto fili liscio come prima. Non è improbabile che il “caso Marino” lasci degli strascichi polemici e di contrapposizione che potrebbero aggravarsi nei prossimi mesi.

Le voci che si riportano sono quelle di un “grande freddo” tra il presidente e il segretario. Dicono analisti ben informati: “Orfini è un ex dalemiano che si è convertito e ora è andato a sbattere. Diciamo che è finito su un ‘binario morto’. Non si può immaginare che Renzi sia colto da improvvisa compassione per la sorte di Orfini. Anche se è l’anno del Giubileo”.

Ieri sera a “8 e mezzo”, la trasmissione di Lilli Gruber, un provato Matteo Orfini replicava imbarazzato a domande imbarazzanti, anche a quella: è vero che adesso lei si dimetterà?Quello che appare all’esterno è che Renzi controlla il governo, mentre Orfini controllava il partito. E bisogna sottolineare l’imperfetto di controllare.

In definitiva, il “marziano”, con tutte le sue stravaganze, è riuscito a mettere a soqquadro non solo il Campidoglio, ma anche il Partito democratico. 

E qui occorre dire che a molti sostenitori del Partito democratico può venire un po’ di nostalgia. Se Marino nei giorni scorsi ha citato le frasi immaginifiche del Che Guevara, forse qualcuno rimpiange Leonid Ilic Breznev che, in periodo di distensione, invadeva la Cecoslovacchia, ma i “dissidenti” li faceva discretamente accompagnare negli ospedali psichiatrici, senza scomodare i notai.

Forse una nostalgia brezneviana è eccessiva, ma una nostalgia togliattiana è più calzante. Palmiro Togliatti, alias compagno Alfredo, alias Mario Correnti, alias Ercoli, tanto per citare alcune sue “interpretazioni” politiche, ogni tanto si incazzava quando vedeva pasticci inenarrabili in alcune vicende da gestire e, pestando un pugno sul tavolo, sbottava: “Via i buffoni dal teatro della lotta”.

Non c’era bisogno di questi vecchi bolscevichi per risolvere il caso Marino, ma di alcuni autentici riformisti un po’ più avvezzi alla democrazia.