Smoking, ma anche felpe e giacchette sportive (con imbottite dato il freddo polare), poco visibili i ‘generoni’ romani, bellissima in sobria eleganza Raina Kabiavanska, in abito scuro (senza farsi notare, e per questa ragione entrato ed uscito da porta laterale) il ‘melofilo’ Ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan, molti ragazzi e ragazze nelle file laterali della platea, silenzio assoluto di grande tensione durante le due ore della ‘tragedia in un atto’ The Bassarids di Hans Werner Henze (su libretto di W.H Auben e Chester Kallman tratto da Le Baccanti di Europide), orchestra straripante nelle barcacce di platea, sino al vero e proprio scoppio di dieci minuti di ovazioni.
Qualcosa è davvero cambiato al Teatro dell’Opera di Roma, la cui stagioni 2015-2016 è stata inaugurata il 27 novembre, con un’opera raramente rappresentata in Italia, commissionata cinquanta anni fa dal Festival estivo di Salisburgo e, in aggiunta, basata non sul solito intreccio romantico (del tipo il tenore porta il soprano sotto le lenzuola ed il baritono si inalbera) ma su un confronto-scontro filosofico-religioso. In altra sede, ho illustrato il significato concettuale de Le Baccanti di Euripide (morto solo pochi mesi dopo la messa in scena della tragedia), la cui trama è seguita abbastanza fedelmente da W.H Auben e Chester Kallman. In questa nota, ritengo utile soffermarmi sull’esecuzione.
E’ necessaria una precisazione. In primo luogo, Henze è, con Britten, uno dei due compositori che riuscirono nell’intento di rendere fruibile al grande pubblico il teatro in musica che conteneva le innovazioni del Novecento (dalla dodecafonia della seconda scuola di Vienna al minimalismo americano, passando per le dissonanze straussiane). In secondo luogo, The Bassarids (la cui versione originale è in inglese come presentata a Roma) non è un lungo atto unico come quelli, ad esempio, di Strauss o Zemlinsky ma una sinfonia scenica in quattro movimenti poiché azione scenica e musica si snodano in quattro parti, senza cesura di continuità, come in una sinfonia per il teatro quale La Damnation de Faust di Hector Berlioz.. Aspetti tradizionali dell’opera lirica – arie, cori, concertati – sono perfettamente integrati nella struttura sinfonica in cui il primo movimento è una sonata, il secondo uno scherzo, il terzo un andante, il quarto è un tema di ben 43 note che si snoda in una passacaglia finale. A differenza di altre opere di Henze , The Bassirids risente dell’esperienza post-wagneriana.
Veniamo all’esecuzione musicale. Stefan Soltesz è uno dei rari direttori d’orchestra in grado di dirigere la complessa partitura che nel 1966 a Salisburgo venne concertata da Chrystoph von Dohnâni. Ne esiste un ottimo cd dal vivo della Orfeo così come una registrazione in studio di Gerd Albrecht. La prima è del 1966 in traduzione ritmica in tedesco ed include un intermezzo settecentesco, successivamente eliminato da Henze in quanto interrompeva le tensione drammatica.
La versione diretta da Albrecht è quella che si ascolta al Teatro dell’Opera di Roma. Richiede un organico grandioso , analogo a quelli post-wagneriani della prima metà del secolo scorso, e comporta un grande equilibrio tra palcoscenico e golfo mistico e difficili ruoli per i fiati e gli ottoni. Stefan Soltesz e l’orchestra ed il coro dell’Opera di Roma hanno eseguito la partitura con vera maestria.
Il cast vocale è internazionale Ladislav Elgr (Dionysus), Russell Braun (Pentheus), Mark S. Doss (Cadmus), Erin Caves ( Tiresias), Andrew Schroeder (Capitano della guardia reale), Veronica Simeoni (Agave), Sara Hershkowitz (Autonoe) e Sara Fulgoni (Beroe). Tutti di grande livello. Spicca il lungo duetto tra Ladislav Elgr (tenore dalla tessitura acuta) , Russell Braun (baritoni). Ottima Veronica Simeoni in un ruolo sgradevole (sbrana il proprio figlio Pentheus).
In una scena unica, la regia di Mario Martone (scene di Sergio Tramonti, costumi di Ursula Patzak) si svolge su due piani, quello individuale degli istinti personali e quella “sociale” delle leggi di Pénteo, al tempo stesso Re e uomo razionale. L’ambientazione è uno stato dittatoriale nel Novecento. Ha idee brillanti: come quella di trasportare il mondo di Dionysus in una cava che si apre in scena. Ma, a mio avviso, è troppo cupa dall’inizio alla fine, mentre la partitura ha passaggi luminosissimi.