Io e mia sorella. Lo ammetto, il più delle volte avrei voglia di strozzarla, ma guai a chi me la tocca. Per lei sarei disposta a morire. Per lei e la sua progenie. Eppure la maggior parte delle volte che ci incontriamo finiamo per litigare, così siderali sono le distanze tra vissuti e caratteri. Accenno biografico dovuto, dopo l’ascolto della catechesi di Papa Francesco di ieri. Udienza generale dedicata, nell’ambito del ciclo sulla famiglia, alla fratellanza. Sorellanza nel mio caso. Ha persino fatto pregare per i fratelli e le sorelle, e io ho pensato all’altra metà di me, la bambina che da piccola mi tormentava per giocare all’alba della domenica mentre io avrei preferito dormire, che mi costringeva a firmare in bianco cambiali sul nostro futuro (non so… che avrei lasciato tutto a lei se fossi diventata ricca o che le avrei regalato un milione di lire al compimento della maggiore età) oppure sull’immediato presente (tipo avrei rifatto i letti di entrambe per 15 giorni), che mi portava in soggiorno a fare il picnic (vivevo in una città senza verde) o mi faceva ridere a crepapelle la sera, prima di andare a dormire, fingendosi senza forza.
Lei più debole lo è sempre stata: magra come un chiodo, anemica e pallida come un cencio. Con grandi occhi voraci sul volto. Incapace sin da bambina di tenerezze o smancerie, non è mai stata affettuosa nel senso classico. Insomma ai bacini tra sorelle preferiva calci e pugni. Che io incassavo. Un fascio scattante di nervi e muscoli, schermitrice per passione familiare che a volte prendeva me a bersaglio per sfogare una rabbia repressa chissà per cosa e da quanto. Nonostante il quadro, in cui io appaio generosa e paziente vittima di un interno familiare schizofrenico e persecutorio, in realtà il rapporto con mia sorella è stato sempre felice e soprattutto indissolubile. Non ci siamo mai allontanate, neanche durante l’incasinatissima adolescenza o le prove strazianti, come la perdita di nostro padre. Parlo della mia vita per dire che forse è simile a quella di molte altre famiglie italiane, dove fratelli e sorelle costruiscono rapporti solidi e duraturi, anche se conflittuali.
Ieri Bergoglio, come sempre pratico di vita, accanto alla bellezza biblica del “com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme”, raccontava anche di Caino e Abele, e di quella domanda “dov’è tuo fratello?” che continua a tormentare intere generazioni e che ancora oggi è all’origine di tante tragedie mediatiche. La rottura tra fratelli è una cosa brutta, ha detto il Papa, “cattiva” per l’umanità. E sì che basta spulciare tra le pieghe delle nostre famiglie per scoprire dissidi intorno ad un pezzo di terra o una casa, fratelli che non si rivolgono parola da decenni, altri che si sono allontanati tanto da non ricordarsi neanche più che sono usciti dallo stesso grembo.
Perché proprio Francesco ha fatto notare che ciò che unisce, più del sangue sembrerebbe, è aver condiviso, per nove mesi, la stessa carne, lo stesso spazio caldo e umido di fluidi. E’ nella pancia della madre che si diventa fratelli. E’ custodita nel grembo materno la sacralità del legame tra congiunti. Tanto che è proprio la famiglia, per il Papa, a costituire la più grande scuola di libertà e di pace.
Tra fratelli si impara la convivenza umana, l’amore e la gestione dell’alterità (per farla breve, mia sorella non la strozzo perché oltre a volerle un mondo di bene so che non si fa). Ed è proprio il legame tra fratelli che insegna, o dovrebbe insegnare, la solidarietà con il mondo. Si chiama “fraternità” ed è la base di ogni libertà e di ogni pace. L’abbraccio tra fratelli si dilata all’ambiente in cui si è immersi, al paese in cui si vive, al pianeta che siamo chiamati ad abitare. Fratello e sorella sono le parole più amate dal cristianesimo. Lo ha ricordato Bergoglio insieme al fatto che presuppongono una comune origine, una condivisione reale, uno slancio amoroso che va oltre la scelta, “una esperienza forte, impagabile, insostituibile”.
Ed è vero, guardandomi intorno ci sono persone a cui voglio bene come “fratelli” o “sorelle”. Persone che fanno parte della mia vita e che non posso perdere. Ci sono altri che lo erano e ora non lo sono più. Ma non cambia il fatto che portare questi legami in un orizzonte più vasto può fare solo bene. L’ho capito quando ho sentito, al termine dell’udienza, parlare il Papa dei “suoi fratelli copti” uccisi solo perché cristiani, morti con il nome di Gesù sulle labbra. Il dolore del pontefice era reale, forte, drammaticamente vero anche se non li aveva mai conosciuti. Era la fede, la comune nascita in Cristo a fargli percepire l’enormità dello strazio. E sempre per il senso di “fraternità” ha rivolto l’ennesimo appello per il Medio Oriente, popolato di fratelli e sorelle non solo cristiani, ma ugualmente coinvolti nella sofferenza di guerre violente. La Pace nasce dalla capacità di amare l’altro. Come un fratello appunto.