Ieri papa Francesco era decisamente indignato. Parlava di anziani e, appartenendo alla categoria, ne ha sposato tutte le cause. Certo lui non è abbandonato in una casa di riposo, non viene considerato uno scarto e non ha problemi di comunicazione intergenerazionale, è senza dubbio il più bel esempio di “riserva sapienziale” a disposizione della collettività, addirittura planetaria, ma i suoi 78 anni lo collocano inevitabilmente nell’ultima fascia umana: “vecchiaia”.
Certo è il più bel vecchio che il mondo ha a disposizione, ma gli acciacchi si vedono, qualche ruga anche e, chiamato al soglio pontificio in tarda età, si può considerare un operaio dell’ultim’ora. Eppure è il migliore “testimonial” di una condizione coccolata in Occidente quando possiede una qualità di vita accettabile e risparmi sostanziosi, scartata ed emarginata ovunque se mostra fragilità di ossa e portafogli. Diciamo la verità, Bergoglio ha ragione, la nostra è una società che non si è allargata alla “vita”, almeno in senso orizzontale. Vale a dire che con l’aumentare del numero di ottantenni e novantenni non si sono organizzati spazi adeguati alle loro esigenze. Non si è fatto posto in un mondo lottizzato dalle generazioni a quel patrimonio di saggezza e sapienza che appartiene a chi ha molti anni sulle spalle.
Di più, si è finito per rendere patologica una stagione della vita, rendendola quasi una malattia da oscurare o allontanare. Tralasciando gli effetti devastanti che ciò ha procurato su anime fragili (pensiamo a quelle povere donne tirate fino allo strappo e gonfiate di botulino per nascondere qualche segno dell’esistenza) di fatto la “medicalizzazione” della vecchiaia ha portato ad una perdita del senso della vita, allo sperpero di esperienze vitali per la preservazione della specie.
Il Papa ieri, durante l’udienza generale, ha ricordato la lucidissima dichiarazione di un altro vecchio da invidia, Benedetto XVI, che visitando una casa per anziani pochi mesi prima della sua rinuncia al pontificato, usò parole profetiche per stigmatizzare l’emarginazione forzata dei vecchi, la loro irrilevanza sociale. “La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune”. Ora se si guarda all’Italia in pieno ricambio generazionale, dove fino a pochi anni fa a gestire il potere erano solo gli over 70, (abbiamo appena congedato uno “splendido quasi novantenne” come presidente della Repubblica) non ci si dovrebbe preoccupare troppo, ma è evidente che il pensiero del pontefice non va certo ai baroni della politica o della cultura bensì ai poveri vecchietti che finiscono addossati alle pareti di una stanza comune, nelle case di riposo trasformate in avamposti della morte, imbambolati davanti alla tv, circondati da odore di disinfettante e brodo di dado.
Il nostro è un paese vecchio, dove non nascono più bambini, ma che rifiuta di organizzarsi per valutare al meglio le potenzialità della terza e quarta età. Francesco non ce la fa a guardare un’umanità ricca di passione e vita trascinata nell’angolo della Storia, ridotta a “peso” o “zavorra”. Tutta la sua personalissima vicenda contraddice una visione pessimistica e residuale della vecchiaia. Non è uno scarto l’uomo che lo Spirito Santo ha scelto per guidare la Chiesa nel dopo Ratzinger, perché dovrebbero esserlo i suoi coetanei che sopportano un allontanamento dalle responsabilità e una diminutio di autorità solo perché scricchiola qualche giuntura o il capo si è ingrigito?
Struggente è stato il racconto, fatto durante la catechesi dal Papa, delle sue visite nelle case di riposo dove vecchi obbedienti alla vita aspettavano invano la visita di figli troppo indaffarati per regalare tempo e presenza. “Ricordo un’anziana — ha detto Francesco — che mi diceva ‘Mah, per Natale’. Ed eravamo in agosto”. Otto mesi di attesa per un abbraccio di quel figlio allattato e cresciuto. Otto mesi da abbandonata. Un “peccato mortale” per il Papa che non risparmia severità e durezza se deve tirare le orecchie a qualcuno. Lui che è cresciuto con una nonna che sapeva insegnare il valore e della dignità delle rughe, raccontando di padri infastiditi da nonni bavosi e distratti, confinati a mangiare in cucina per non disturbare la visione ad amici e conoscenti. E di bambini coscienziosi che ricordavano che la vecchiaia, come la morte, è il destino di tutti.
Perché questo ci rinfaccia Francesco, la fragilità che ignoriamo, i vecchi che scartiamo, sono ciò che saremo noi tra qualche anno. Quando percorreremo, fino alle ultime stazioni, la nostra strada. Si può far finta di crederci, nell’eterna giovinezza, ma anche i volti giovani saranno solcati dalla fatica della vita. Riscoprire la prossimità e la gratuità significa fare della nostra una società meno perversa.
Domenica scorsa ero in una casa di riposo nella Lunigiana. Donne senza denti e uomini in pigiama trascorrevano il pomeriggio accompagnati dal suono di una fisarmonica. Molti godevano delle carezze dei parenti, gli altri solo delle attenzioni delle buone suore. Una delle anziane si era vestita di tutto punto, con collana e rossetto. Appollaiata tra il termosifone e il suo bastone aspettava il figlio che non sarebbe arrivato. Non ricordava che non c’era più. Una visione che stritolava il cuore. In fondo basterebbe anche solo trovare un po’ di tempo per stare con donne come lei.