Ma che mai si può dire, ancora, di Ignazio Marino? Unico vero tormentone estivo, il suo ruolo, il suo destino, un’epica metropolitana, la sua, degna di un racconto di Achille Campanile, di un’inscenata di Gigi Proietti. Che dire d’altro, quando tutto è già stato detto? La sua coriacea staticità, la sua indomata capacità di incassare, di glissare, di cambiar discorso, riportandolo sempre e soltanto su di sé, sulla sua indiscussa onestà, ecc. Uno di quelli cresciuto alla scuola della moralità è cosa nostra, di quelli che noi siamo i tutori e garanti delle libertà, di quelli che l’antimafia ce l’abbiamo nel sangue, e se qualcuno sbaglia non è mai dei nostri, non datur. 



Quante volte i romani vessati dalle sue inutili trovate, dalla montante incuria, dallo sfacciato degrado, ributtato sempre in faccia ai predecessori, in una catena di accuse che risale tranquillamente ai papi re; quante volte si sono chiesti di fronte allo spreco spossante di gesti, parole, propaganda perché mai si sono fidati di un bravo, anzi bravissimo medico, per guidare una capitale. Risposta non c’è, o forse, chi lo sa, è perduta. Esattamente come la memoria della sua eccellenza chirurgica. Due mani preziose strappate ai trapianti, adoprate per benedire nozze gay, mai ratificate, pour cause; a tagliar nastri di ciclabili, benemerite, se poi funzionassero autobus e metropolitane. Mica tutti possono permettersi di andare in bici, come lui, guardati a vista da poliziotti su due ruote. C’è chi lavora in periferia, lontano; c’è chi ha mal di schiena, e possiamo perdonarlo se da vecchietto non è abile allo sport. Due mani adoprate a rimestar carte e uomini di giunte improbabili, che si sfilacciano come le bandiere consunte ai palazzi istituzionali. 



Un po’ sperando di dargli il colpo di grazia, a questo primo cittadino acclamato ma non scelto né voluto dal partito, dal premier che ne è il segretario. Un po’ per la delusione di veder trascinata nel fango, insieme a lui, la propria onorata rispettabilità professionale nel calderone della peggior Roma di sempre. Ci sarà qualche manina audace e abile a girare il coltello nella piaga, pronta ad applaudire la gogna delle autorevoli testate d’oltreoceano. Ma l’ha detto lui troppe volte, che si tratta di un complotto, perché quest’ipotesi soltanto ci sfiori. Non gli si può più credere, come al suo omologo siciliano, Crocetta. Altra brava persona, dice lui, e l’ha detto tante volte da stancare., da insinuare all’immediato dubbi e scoramento. 



Marino, che ha ereditato buchi neri, corruzione, sporcizia, delinquenza, dalle amministrazioni precedenti. Sinistra e destra, anche se quest’ultima, ovviamente, ha maggiori colpe, per natura. Marino, che si è prestato alla politica (c’era già, in politica, da tempo) per amore di una città che non è la sua (appunto, non a caso lo chiamano marziano). Marino, che è uomo di dialogo, di aperture, di diritti negati, di alti proclami e prorompenti ideali. Non è uomo di tombini, di buche per le strade, di aiuole disastrate e monnezza a ogni angolo, non s’abbassa a tanto. Ci pensino i volontari, si esercitino al senso civico i seguaci di Gassmann. Come se non pagassimo e tasse, come se tra i diritti non ci fosse la decenza dei trasporti, la pulizia minima delle strade e dei parchi, del lungofiume, l’attenzione ai senzatetto, ammassati nei cartoni a ogni ponte, a ogni portone, la sicurezza dai delinquenti che abbondano, e tendono agguati appena scende la sera.

Marino, che non perde occasione di farsi un selfie con papa Francesco, per farsi spalleggiare da quella parte, rivendicando la sua professione di fede, e pazienza se la sua biografia è segnata dalle più feroci battaglie ideologiche per negare i cardini etici dell’umanesimo cristiano. Pronto ad afferrare anche l’insperata gomena di un Giubileo per restare un altro anno inamovibile, al comando della tolda che fa acqua e spinge gli assennati alla fuga. Turisti, anzitutto, che sono la vera risorsa di Roma. 

Di Marino non si può dire più nulla, è come sparare su una Croce Rossa blindata che continua ad aggirarsi, ubriaca, tra le vie, sbandando qua e là, rompendo vetrine e travolgendo la gente. Di Marino una parola chiara avrebbe dovuto darla da tempo Renzi, e potrebbe ancor farlo, prima che l’autunno pregiubilare incomba. Mi spiace, ti hanno votato, non ti vogliono più, in due anni a parte lamentarti non hai fatto nulla, la città è peggiorata a detta di tutti, mafia capitale non ti riguarderà, a parte che mafia non era, ma un giro di malaffare gigantesco, in cui tanti accanto a te erano coinvolti. Se non te ne sei accorto, mancata vigilanza, si perde il posto in qualunque ambiente di lavoro. 

Solo che Renzi è troppo tattico, pensa ai grillini minacciosi, pensa che potrà incassare di più in primavera, votando in tante grandi città, potendo proclamare che ha abbassato le tasse; Renzi spera, e rischia di essere scavalcato a latere. Da Marino e Orfini, che si sono incatenati l’un l’altro, alfieri di una sinistra che resiste, gioca a biliardino, sorride, ma forse con meno innocenza prepara revanscismi. Renzi spera, che giunta dopo giunta gli manchi la terra sotto i piedi, e Marino sia sfiduciato come si conviene, non dal capo, non da lui, con un’altra campanellina d’addio. Ma l’incassatore resiste, testardo, e va avanti. Come l’ultimo giapponese, resterà lui solo, e dovranno prenderlo a forza. Oppure, sostenuto da braccia amiche, avrà buon gioco ad addossare ancora una volta la colpa ad altri: a quel Pd con cui ha realizzato un municipio monocolore. 

Ovvero, caro premier, è il tuo partito, sono i tuoi. Se la città non marcia, prenditela con loro. Io non c’entro, mai. Ricordate la Pantera Rosa? Sembrava ingenuo maldestro e fuori del mondo. Ma vinceva sempre, si prendeva pure le medaglie, mentre rotolavano le teste dei suoi superiori.