Sulla vicenda dei funerali di Vittorio Casamonica, il “boss romano” salutato con gli encomi di un re in una parrocchia della Capitale, c’è un copione già scritto, una realtà non detta e una verità celata.

Il copione già scritto prevede due fasi: la prima è quella che trasforma un singolo evento in un simbolo. Si tratta di una logica che mira a ignorare la realtà delle cose per sottolinearne la valenza etica e drammatizzarne gli effetti. In questa fase scompaiono gli uomini, i loro vissuti, le mille sfumature delle loro esistenze e rimangono solo i segni distintivi che li qualificano di volta in volta come obiettivi significativi da colpire per mandare un messaggio. 



A questa fase ne segue poi un’altra: quella di usare l’episodio, ormai esacerbato, come arma politica e ideologica per raggiungere uno scopo ben preciso. Si chiama strumentalizzazione. Nel caso di Casamonica lo scopo è stato molto chiaro: dire alla città di Roma che la sporcizia — la mafia — non è una mentalità diffusa, ma una realtà fatta di famiglie e di collusione con il potere, politico o religioso che sia, riducendone il fenomeno ad un comportamento da correggere, una macchia da lavare, un “bubbone” di facile identificazione e di altrettanto facile asportazione. 



Ma la mafia non è soltanto questo e coloro che oggi si onorano di combatterla con proclami indignati fanno una bassa propaganda destinata a durare lo spazio di un Tg. La mafia, infatti, è una mentalità corrotta che si genera da un cuore corrotto e che si infiltra nella società a tutti i livelli, senza remore né confini; è una malattia dell’anima che i provvedimenti possono arginare, ma che si combatte anzitutto con un’educazione, con una proposta, con una possibilità di salvezza. Parlarne in altri termini, pretendere di esserne immuni, significa non comprendere che alla base dell’agire mafioso c’è qualcosa di grave che ha direttamente a che fare con il cuore dell’uomo. Non è un caso che San Giovanni Paolo II o Papa Francesco abbiano sempre chiesto ai mafiosi “conversione e pentimento”, ossia un’azione del cuore, un processo di cambiamento interiore che avesse come esito il distacco dal peccato e l’assunzione piena delle proprie responsabilità. Considerare il caso di Casamonica come l’emblema di un sistema marcio è un gioco facile, una strumentalizzazione cinica e bieca di qualcosa di molto pericoloso. 



Eppure in questa vicenda c’è pure una realtà non detta che occorre avere il coraggio di affrontare: la Chiesa, intesa nella sua componente più popolare e periferica, non è ancora riuscita, almeno in alcune parti d’Italia, a metabolizzare e a far proprie le condanne che i Papi hanno rivolto ai mafiosi e spesso — complice tanta paura e tanta vigliaccheria — non ha cessato di strizzare l’occhio a fenomeni che i Vescovi e molti santi sacerdoti, a volte perfino con la loro vita, hanno fermamente rifiutato e stigmatizzato come dannosi per il popolo di Dio. 

Rimane, insomma, una sorta di connivenza con una religiosità fatta di elementi paganeggianti e restii a farsi purificare dal Vangelo e dal Magistero. Proprio perché la mafia sorge sempre in un cuore mafioso questo cuore non deve potersi aggrappare a nessun semaforo giallo, a nessun cedimento sottinteso e — soprattutto — a nessun ammiccante compromesso. Certi cortei e certe esibizioni non hanno nulla a che fare con la fede e condannare tali atti non è un optional, ma — come ha ben fatto il Vicariato di Roma colto di sorpresa da tutto questo — un preciso dovere pastorale. 

Infine, e non è poco, non è possibile far finta che questi episodi siano solo fenomeni legati alla sfera temporale. La verità celata dalla marea mediatica di questi giorni è che un funerale non è solo un atto pubblico, ma un gesto religioso in cui Dio ha un ruolo decisivo. E Dio è un cuore che aspetta, una mano che mendica, una porta aperta. Egli non ci chiede di essere senza peccato, ma di essere rivolti a Lui, semplicemente a Lui. Accettare che gli uomini, anche i più delinquenti, vadano in Cielo al cospetto del giudizio divino è certamente molto difficile. Ma pretendere che la vita si risolva solo in un verdetto, esito agghiacciante del giudizio umano, non è solo tremendo, è — per ciascuno di noi — l’inizio del vero inferno.