Caso Totti. Va bene, sono juventina, e dovrei ancora star male per come è stato cacciato Del Piero, che ora svolazza ahimè sul palco di “Ballando con le stelle”, e ancora deve decretare il suo trionfo con l’ultima partita.

Va bene, questi campioni guadagnano milioni, non gli è permesso fare primedonne e capricci da bambini.



Va bene, quando è finita è finita: lo si capisce dalla tenuta, bisogna lasciare in tempo, prima che gli altri ti facciano capire che è ora.

Va bene, la squadra è più importante dei singoli, un mister deve mirare a vincere, a far lavorare un gruppo coeso, e le star spesso la coesione la rompono, per mostrarsi determinanti, e insostituibili.



Sono tutte considerazioni che abbiamo letto a firma dei più importanti scrutatori del calcio, delle penne più raffinate o rozze, o sentito dalle voci ormai familiari dei commenti radiofonici e televisivi. Il mister non si tocca, Totti è un grande, però…

Per non parlare dei tifosi: la leggenda e la storia dicono che quelli romanisti son lunatici, pronti a osannare e gettare nella polvere, a sgolarsi per il re di turno che “certamente”, a settembre, porterà alla vittoria, salvo rendersi conto, più o meno a Natale, che non vale nulla, è un peso morto, bisogna cacciarlo. Non credo riguardi solo i romanisti: Palermo docet, Inter e Milan pure, caso mai con meno veemenza. 



Prendo il caso Totti come metafora, e guardo al calcio come elemento fenomenico della realtà. Che stiamo stravolgendo, nei suoi valori essenziali, nella sua verità evidente, come dire che l’acqua è bagnata, avvezzi a un cinismo opportunista e volgare, alla pretesa, ché ogni desiderio è diritto, foss’anche quello di vincere a tutti i costi, anche calpestando ideali, natura e storia.

Totti è la Roma. Totti è, in gran parte, Roma. Icona e monumento, e si sa che statue e onorevoli la Capitale non le tratta un granché: abbattute le prime, al cambio di un nuovo imperatore, smantellate le seconde, per asservirsi ai voleri del nuovo padrone. Figurarsi se non lo sa, il ragazzino di Porta Metronia, che è venuto su a forza di sudate e allenamenti, e si è pure beccato gli sberleffi perché si impacciava a parlare, fino a farne una maschera, e trasformare una debolezza in un tratto simpatico e ben vendibile. Ha cominciato a 9 anni, a correre con gli scarpini, con l’orgoglio di quella maglia giallorossa, le ha giurato fedeltà, come ha poi fatto alla bella moglie, o ai santi in Cielo, non credo solo perché benevoli quanto ai suoi successi calcistici. Una maglia dedicata al Divino Amore, cuore religioso di Roma, lo testimonia. 

Totti è un esempio di lavoro, dedizione, costanza, riserbo. Uno che parla poco, ma sa chiedere scusa quando si fa prendere la mano, e sbaglia. Uno che di sgarbi ne ha già subiti, e non ha fatto pazzie: le sostituzioni e le panchine le ha vissute in nazionale, più di una volta, e non ha fatto drammi.

Ma un uomo per quel che è e rappresenta non può buttar via la sua dignità, davanti all’ennesimo toscano prepotente che si presenta come Mister Wolf, e pare che il problema sia il secondo Francesco della città. Credo sappia benissimo che non può immaginarsi sui 90 minuti. Ma con il Frosinone o l’Empoli, tanto più se sei in vantaggio, crede di non sfigurare, e a ragione. Per non dire del partitone col Real: ci ricordiamo tutti la standing ovation del Bernabeu, al solo sentire il suo nome. E qui a Roma? Sostituito a 2′ dalla fine, tempi supplementari. Se non è un’umiliazione inaccettabile, questa. Doveva lamentarsene con Illary, di nascosto? O non era più virile a domanda rispondere, e dire che sì, non gli va bene essere trattato senza rispetto, senza tenere conto di quel che ha dato alla squadra. Che queste considerazioni siano rivolte più alla società che a Spalletti non cambia la situazione, anzi: è ancor più grave che a un uomo, a uno sportivo così non sia già stato fatto riquadrare un contratto a più firme per tenerselo stretto, come bandiera, non foss’altro per tutte le magliette che grazie a lui si vendono nel mondo. Totti ha mostrato schiettezza e coraggio: e pazienza se sono piovute livide le accuse di protagonismo, di vittimismo, di boicottaggio alla squadra. L’opportunismo ha dei limiti, e non fa calcoli. Spalletti l’ha punito, mortificandolo e trattandolo come uno scolaretto recalcitrante. L’ha messo in castigo, poi all’ultimo banco, fa finta che in classe non ci sia più, e pazienza se con la coda dell’occhio tutti lo guardano, e si chiedono pavidi se sia giusto, e se mai debbano dire qualcosa. Mi sarebbe piaciuto vedere striscioni e ole per lui, ad ogni partita, fischi e proteste a un allenatore che non cela ruggini antiche, e qualche compagno dei più vecchi che si alza in piedi, in piedi! Ed esprime solidarietà e affetto. 

Siamo a questo: la gratitudine, l’ammirazione sono letti come orpelli sentimentali. Ce la menano ad ogni occasione che lo sport è educazione, formazione di personalità, allenamento esistenziale, che i bambini ci guardano… E tutti, giornalisti e tifosi quatti quatti a far finta di niente, sperando che al più presto mister Pallotta lo spedisca in Cina, o gli consenta un ufficio il più lontano possibile da Trigoria. Con due ragazzini che vivono in città e un terzo in arrivo, come se fosse possibile, a uno che ci tiene a fare il padre. 

Tutti conigli quanto a volontà e volpi quanto a cinismo, mostrano ai bambini che vali in quanto dai e hai, vali in quanto paghi, in quanto funzioni. Mica significa erigere piedistalli agli stendardi ab aeterno. Sfrutta le persone, finché ti servono. Poi buttale vie, sostituiscile, cambiale, vattene in America, falla vedere agli americani che fanno i capataz a casa tua, prenditi un sacco di soldi e arrivederci Roma, l’attaccamento alla propria città e alla maglia che ti ha fatto conoscere al mondo sono cose antiche, da campioni d’altri tempi, un po’ come offrirla al Divino Amore, quella maglia, accanto a quella di Bartali, appunto.

Ma meglio l’America, Francesco, che il palco con la Carlucci, ti prego, o il valletto a Le Iene. Almeno tu.