Dunque, il comune di Roma affitta circa 43.000 immobili di sua proprietà a canoni stracciati, anzi “confezione-regali”. E lo fa da anni e anni. Non è uno scandalo addebitabile a Marino o Mafia Capitale, bensì un vero e proprio sistema, che oltre a creare privilegi odiosi per alcuni cittadini che ne beneficiano (e votano), porta, ovviamente, a una perdita netta stimata in 100 milioni l’anno.



Roma è un comune. Enorme, importante, ma è uno. Roma impiega circa 20.000 dipendenti, ma considerando anche le varie società ed enti che le gravitano, salgono fino a quasi 50.000. Roma ha accumulato un debito spaventoso di 15 miliardi, che ovviamente non si è creato sotto la guida di Marino, ma viene da molto lontano; il bilancio del comune è stato “ripulito” da questa perdita spaventosa, assegnata a una gestione commissariale, che però pesa sulle tasse dei cittadini romani e, in parte, sull’imposizione complessiva dello Stato. Roma ha un bilancio di circa 6,5 miliardi che, come si nota, non risulta essere gestito nel modo più corretto. È evidente che in Italia esiste un problema e quel problema è, si direbbe, parecchio concentrato nel comune di Roma.



Confrontiamo un attimo i dati delle performance devastanti della capitale con quelli delle province. Esse sono 107. Di esse si è detto che occorreva abolirle e riformarle, perché i costi della politica erano insostenibili. Andando, però, nel dettaglio, i fautori della riforma affermavano che il costo della politica provinciale era di 100 milioni: quanto, cioè, la perdita che un solo comune registra nella gestione delle locazioni dei propri immobili (e chissà cosa si scoprirebbe estendendo l’indagine agli altri capoluoghi italiani). Poi, nella realtà, il costo degli organi di governo era di 89 milioni, che senza la riforma Delrio sarebbe sceso a 34.



Guardiamo al personale. In 107 province lavoravano prima della riforma Delrio circa 50.000 dipendenti, ridottisi adesso a circa 32.000. Abbiamo visto che in un solo comune, Roma, i dipendenti sono 20.000, oltre a 30.000 compresi tra vari enti e società della galassia della capitale. Guardiamo alla spesa complessiva. Prima della riforma, 107 province sostenevano una spesa di 12 miliardi. Dopo la “cura” sarà di circa 6,5 miliardi. Abbiamo visto sopra che un solo comune, Roma, ha una spesa di 6,5 miliardi.

A occhio e croce, chiunque trarrebbe la conclusione che, allo scopo di sanare la gestione e la finanza pubblica sarebbe opportuno intervenire nei confronti dei numeri e dei bersagli grossi. Roma è Roma, non si può certo generalizzare, ma come si nota da sola rappresenta i costi di 107 piccoli enti, le province.

Cosa si è scelto, però? Di farsi trasportare dalla furia abolizionista e riformista, colpendo esattamente i piccoli 107 enti, lasciando il Moloch di Roma nei suoi disastri amministrativi.

Ma, le incoerenze governative di fronte al disastro di Roma non finiscono certo qui. Il comune, come è noto, è avviluppato da anni nella questione delicatissima del “salario accessorio”, cioè della spesa per incentivi di varia natura (indennità e premi di produttività) al personale. Secondo l’ispettorato del ministero dell’Economia, il comune di Roma ha sbagliato a determinare sia l’ammontare delle risorse destinate al salario accessorio, sia a distribuirle. Ma, con 20.000 dipendenti il potere di interdizione di questi è altissimo. Così come fortissima è anche la forza di sindacati, talmente strettamente legati alla politica da partecipare attivamente alle campagne elettorali. I 20.000 dipendenti del comune sono in grado di mettere in opera scioperi e manifestazioni tali da mettere realmente in ginocchio la capitale (e, viste le precarie condizioni organizzative, non ci vuol davvero molto).

Dunque, il Governo ha pensato bene di approvare un decreto “salva Roma” appena insediatosi. Anche perché un’altra importante città capoluogo, molto importante, Firenze, vive problemi del tutto analoghi a quelli della capitale a causa del “salario accessorio”. Il “salva Roma”, però, non è servito a molto. È una sorta di sanatoria a metà, di così difficile realizzazione, ma, soprattutto, applicazione, che si sente il bisogno da parte dell’Anci, di modificarlo, ampliarlo.

Però queste richieste ricevono il “niet” deciso e scandalizzato del Ministero di via XX settembre, rigorosissimo, inflessibile nei confronti degli enti locali sotto qualsiasi punto di vista. Il Mef, infatti, è contrario alla sanatoria delle delibere che i comuni lo scorso anno hanno adottato in ritardo in tema di tributi, anche a causa di continui ma incerti slittamenti delle date di approvazione dei bilanci. Date che continuano a slittare ogni anno di mese in mese, perché da anni si modifica drasticamente la contabilità e la finanza locale. 

Dal 2016 è entrata ovunque in vigore un’altra mostruosità: la “contabilità armonizzata”. Un sistema dal nome intrigante e dalla finalità nobile, quella di consentire la rappresentazione corretta e veritiera di entrate e uscite, che si sta, però, rivelando una follia. Mentre prima la finanza locale era regolata da poche decine di norme del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, ora a queste norme si aggiungono decine e decine di “principi contabili”, indicazioni lunghe paginate, involute, controverse, imperscrutabili, tanto che esiste un’apposita commissione (Arconet) istituita per elaborare le ormai immancabili Faq allo scopo di orientare i comuni che non riescono a districarsi nelle migliaia di regole, incomprensibili spesso alla commissione stessa.

Il Mef, insomma, incombe con tutto il suo peso e la sua “autorevolezza” sui comuni. Impedisce di trovare una soluzione non conflittuale per Roma, impone una contabilità semplicemente assurda, che nessuna azienda privata si sognerebbe nemmeno lontanamente di utilizzare, esprime diktat, modifica continuamente le regole del patto di stabilità, incide sulle leggi di stabilità. Quelle stesse leggi, come quella relativa all’anno 2015, che affiancandosi alla riforma Delrio hanno spinto l’80% delle province a violare il patto di stabilità, determinando un risultato negativo di 1,2 miliardi che, naturalmente il Mef “è contrario” a sanare, anche se il buco non è da addebitare alle province, bensì alla sconcertante riforma.

Le sanatorie non sono mai belle. Ma, quando migliaia di comuni sbagliano a deliberare entro una certa scadenza; quando si crea per mesi e mesi il giochetto dell’abolizione dell’Ici, con la sostituzione attraverso Imu e Tasi senza consentire la quadratura dei conti, per poi, dopo un anno, abolire l’Imu; quando si cambia in via sperimentale (una sperimentazione durata 4 anni!) la contabilità complicandola al massimo; quando si spingono decine o centinaia di enti a violare il patto di stabilità; quando si crea un patto di stabilità che ha causato il blocco dei pagamenti in conto capitale verso le imprese; soprattutto, quando si sostiene la politica a deficit di un intero Paese, senza nulla obiettare rispetto a idee di elargizione di manovre dal sapore elettoralistico come i bonus di 80 euro, senza riuscire a contenere il debito pubblico e rendendo debolissimo quel Paese davanti all’Ue. Insomma, in presenza di queste e altre condizioni, forse il Mef farebbe bene a rivedere un po’ le proprie posizioni estremiste contro i comuni.

Un bell’esame di coscienza, una bella revisione di regole e norme sarebbe necessario da parte di chi dovrebbe governare la finanza pubblica del Paese, ma invece lo spinge verso incrementi incontrollati di spesa e debito, ma poi fa il “rigoroso” con gli enti locali.

Le sanatorie non sono mai belle, si diceva. Tuttavia, Roma ha rischiato l’assoluta paralisi alcuni giorni fa ed è tutt’ora ben lontana dall’aver risolto le sue tensioni. Il tutto anche per interpretazioni degli ispettori del rigorosissimo Mef che traggono dai contratti collettivi letture (spesso suggerite dall’Aran, l’agenzia nazionale per la contrattazione) oggettivamente inesistenti, modificando per via interpretativa le regole del gioco di continuo. Le ispezioni del rigorosissimo Mef sono estese a migliaia di enti locali, tutti sotto scacco. E già da molte parti hanno generato vastissimi contenziosi davanti alla Corte dei conti e ai giudici del lavoro. Che tutto questo abbia giovato alla finanza pubblica e alla produttività del lavoro non sembra sia possibile dimostrarlo.

Rivedere e flessibilizzare le regole e le interpretazioni per Roma e gli altri enti, chiudendo definitivamente il pregresso, appare una scelta non più rinviabile, come non rinviabile era modificare il patto di stabilità come fatto finalmente con la legge di stabilità 2016, ma solo in via provvisoria.

L’esperienza di Roma, i suoi fallimenti, il ruolo ambiguo e negativo del Mef dovrebbero essere di insegnamento per una svolta vera e propria, che percorra finalmente strade radicalmente diverse da quelle fin qui seguite.

 

(Franco Sala)ì