L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ed il Romaeuropa Festival hanno portato a Roma una rarità per l’Italia: Koyaanisqatsi, un film-sinfonia sperimentale del 1982 diretto da Godfrey Reggio. È il primo film della trilogia qatsi (dal nome di una tribù indiana degli Stati Uniti). Koyaanisqatsi è una parola della lingua amerindia hopi e significa “vita in tumulto”, oppure “vita folle; vita tumultuosa; vita in disintegrazione; vita squilibrata”.
La trilogia comprende inoltre Powaqqatsi (1988) e Naqoyqatsi (2002). Il film non ha né trama né dialogo. Si tratta di un collage di vari filmati, spesso accelerati o rallentati, che vogliono principalmente raffigurare lo sviluppo della civiltà attuale così come la conosciamo noi. Il film guida lo spettatore attraverso un viaggio che inizia con la natura per passare successivamente all’intervento dell’uomo e diventa sempre più frenetico, il tutto sottolineato dalla partitura di Philip Glass, un caposcuola della musica americana del Novecento (il minimalismo) le cui opere sono purtroppo raramente rappresentate in Italia. Che io sappia, Koyaanisqatsi è stata eseguita in Italia solo una volta dai complessi RAI a Torino nel 2005 nell’ambito di un festival di musica contemporanea.
Per tre sere (11-12-13 Novembre) l’orchestra ed il coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretti da Michael Reisman e rafforzati dal Philip Glass Ensemble, fondato nel 1968 dal compositore come veicolo per la musica contemporanea minimalista, hanno eseguito la partitura mentre su un grande schermo scorrevano le immagini.
Sono andato alla terza replica per cogliere le impressioni del pubblico. Mentre coloro che seguono il Romaeuropa Festival amano l’innovazione e la contaminazione tra generi, gli abbonati alla stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia sono tendenzialmente conservatori; il management li sta avvicinando poco a poco alla musica moderna. Lieta sorpresa, platea e gallerie centrali piene (quelle laterali lasciate vuote perché la visibilità della proiezione sarebbe stata molto limitata). Numerosi i giovani tra gli spettatori.
Il concerto con filmato combacia perfettamente con la COP26 appena tenuta a Glasgow. Dopo una prima parte dedicata alla natura incontaminata, si vedono immagini di microchip e fotografie satellitari raffiguranti aree metropolitane. Alcune riprese mostrano persone di tutti i ceti sociali, dai mendicanti alle debuttanti. C’è anche il decollo di un razzo, che tuttavia esplode pochi secondi dopo la partenza. Il montaggio suggerisce che si tratti di un solo razzo, quando in realtà furono usate due fonti diverse: la prima sequenza di filmati proviene dal lancio del razzo Saturn V (Apollo 11), mentre la successiva ritrae l’esplosione del primo razzo Atlas-Centaur nel maggio del 1962. La cinepresa insegue i detriti di un motore in fiamme e le scie di vapore bianco e fumo in contrasto con il cielo azzurro, mentre i detriti precipitano a terra. Alla fine della sequenza, sullo schermo compaiono la traduzione del termine Koyaanisqatsi e della profezia cantata durante l’ultimo brano del film. Il film si conclude con una ripresa di arte rupestre simile a quella presente all’inizio della pellicola. Il film richiese sei anni di riprese, montaggi, nuove riprese e rimontaggi prima di essere completato.
La partitura di Philip Glass, considerata una delle migliori del compositore di Baltimora, è una grande sinfonia (di circa 90 minuti) in sei movimenti in cui si dà voce a ciò che solitamente non ascoltiamo e presenta con incredibile maestria il ritmo e la follia della vita di questi tempi in grandi città. La natura incontaminata viene giustapposta al caos metropolitano.
Il primo movimento (Koyaanisqatsi) inizia con sottofondo di organo, archi e un coro baritonale estremamente drammatico e inquietante. Segue Vessel, dominato da un coro di soprani, metafora celestiale della maestosità e della bellezza della natura. Poi subentra un sottofondo ipnotico e ripetitivo di sintetizzatori. Il terzo movimento (Cloudscape) si apre con archi, ottoni che compongono una melodia inquietante e ostile per poi trasformarsi su un registro più rassicurante. Archi e fiati sono protagonisti anche nel quarto movimento (Pruit Igoe): i toni e le atmosfere sono sempre più drammatiche, quasi anticipatrici di un’imminente catastrofe. Violini, violoncelli e ottoni, più dei cori che ricordano Carmina Burana di Carl Orff sono perfettamente fusi in una composizione straordinaria e di grande impatto emotivo. Il quinto movimento (The grid), dal fraseggio tipicamente minimalista con organo di chiesa, fiati e violini, ha un ritmo molto incalzante e veloce come la condizione umana nelle grandi metropoli. Poi subentra improvvisamente un coro polifonico femminile di soprano di grande suggestione. Chiude Prophecies, con una melanconica linea di organo a canne e un coro liturgico che conclude questo incredibile viaggio di immagini e musica sul destino dell’uomo. Quindi, è minimalismo ben temperato in cui ci sono gli abbandoni lirici degli archi ed accordi quasi postwagneriani affidati ai violoncelli ed ai fiat. Ben differente del minimalismo di Steve Reich che in City Life, riascoltata questa estate alla Chigiana, tratta temi in parte analoghi.
Partitura affascinante da ascoltare ma difficile da eseguire dal vivo. In primo luogo, occorre piena sintonia tra orchestra ed immagini. In secondo luogo, occorre integrare il Philip Glass Ensemble (due tastiere elettroniche, tre sassofoni, un flauto, un ottavino, con il corredo di sound engineers) con elementi di una normale orchestra sinfonica. In aggiunta, il Philip Glass Ensemble conosce la partitura a menadito mentre per i componenti dell’orchestra sinfonica è verosimilmente una prima esecuzione. Michael Reisman da anni alla guida dell’Ensemble ci è riuscito perfettamente. Non so quante prove sono state fatte.
Come sempre molto efficace il coro preparato da Piero Monti,
Il pubblico ha risposto con ovazioni.