Per chi gravitava nel basso Veneto e in Emilia-Romagna, la strada per il mare era una sola, la Romea, quella “lunga e diritta” che correva nel brano di Guccini del ’67. La Romea è quel nastro che va da Venezia a Ravenna, costeggiando buona parte dei litorali delle due regioni, soprattutto quelli ferraresi e i lidi nord ravennati.



È la strada vetrina della storia (l’abbazia di Pomposa, la tomba di Dante, il mausoleo di Teodorico, il castello di Mesola), dei vini e dei prodotti della terra (come non fermarsi ad acquistare i platò, che sarebbero i plateau, le cassettine di legno con uno strato di frutta, soprattutto le pesche, un vanto della frutticoltura emiliano-romagnola). Anno dopo anno, la Romea è diventata l’accesso al divertimentificio estivo, che inizia al Lido degli Estensi (Ferrara) e arriva fino a Rimini e Riccione, un’industria che ha saputo trasformare le spiagge nelle destinazioni turistiche più pop d’Europa.



Per chi gravitava nel bolognese, ma anche a ovest o a nord, Lombardia compresa, la strada dell’estate invece era la via Emilia, tra Rimini e San Donato Milanese, circa 300 chilometri che toccano Cesena, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, il capoluogo da dove cantava in moto Luca Carboni raggiungendo le suggestioni del mare.

Oggi quelle strade portano a scenari apocalittici, fatti di acqua e fango, quasi la campagna sia diventata un’enorme risiera, e i tetti delle case zattere colorate in un mare grigio. Non c’è più niente, la via Emilia in buona parte è diventata un fiume, la Romea desertificata arriva a stento in una Ravenna dove si procede ad evacuare intere famiglie, dove la A14 e l’Adriatica sono chiuse, dove l’allerta resta rossa.



La contabilità dei morti, dei dispersi, degli sfollati, dei danni si aggiorna minuto dopo minuto, mentre un ministro ammette che il nostro non è un Paese con la cultura della prevenzione, un geologo informa che le previsioni erano giuste ma non servono senza un’adeguata cura del territorio, un climatologo dice che si tratta di bombe ad orologeria e se non si fa nulla per disinnescarle esploderanno in maniera anche più devastante di così, un sindacato accusa la Regione per la carenza di personale nelle strutture tecniche.

Niente di nuovo, si piange sempre ex post, perché intervenire in anticipo sulle situazioni di rischio non genera consensi nell’immediato (e in un Paese in perenne campagna elettorale è una pratica ben poco seguita), perché è sempre più semplice imputare al pregresso i danni dell’attuale, perché cinicamente gli interventi riparatori mettono in moto economie più vaste di quelle che sarebbero beneficiate dalle prevenzioni. In realtà, l’ultimo disastro insiste su un territorio dove una quota importante di manutenzioni viene svolta, dove la campagna – pur soggetta allo spopolamento – resta comunque presidiata, dove anche imponenti bacini di laminazione forse stavolta non avrebbero potuto scongiurare più di tanto l’inondazione.

Certo, c’è stato disboscamento su certe aree golenali limitrofe ai corsi d’acqua; certo, si è costruito dove sarebbe stato meglio lasciare spazio all’espansione degli alvei. Ma le precipitazioni continue e così abbondanti (in poche ore la quantità di alcuni mesi) probabilmente non avrebbero lasciato scampo, anche se con conseguenze meno impattanti.

Va detto che i fenomeni ciclonici come questo che s’è scaricato in Romagna non sono roba nostra, eppure da adesso anche sì, ne dovremo tener conto, così come bisognerà considerare possibili repliche di lunghi periodi siccitosi, in una sinusoide che una volta veniva riassunta nel “se non piove pioverà”, e che oggi al termine dell’annata meteorologica magari si tradurrà in scostamenti minimi dalla media, ma con nascosti picchi violenti.

I ventuno fiumiciattoli (con portata limitata) che non sono riusciti ad accettare le precipitazioni e che hanno sommerso l’Emilia-Romagna, e il mare grosso che in poche ore s’è divorato i litorali (migliaia di tonnellate di sabbia scomparse), stanno mettendo in ginocchio i comparti (primario, manifattura e turismo) che reggono l’economia del territorio, che l’anno scorso valeva una crescita del 3,8% del Pil, risultato che quest’anno, già prima dell’inondazione, si prevedeva in forte calo. Adesso la produzione calerà sensibilmente, e forse sarà proprio il turismo, ancora una volta, a guidare la difficile ripresa, confidando nella resilienza dimostrata nel post-pandemia e in provvidenze speciali.

Proprio il Piano nazionale di resilienza e ripresa (nella sua Missione 2 – Rivoluzione verde e transizione ecologica) dedica il Componente 4 alla sicurezza del territorio, intesa come la mitigazione dei rischi idrogeologici, con interventi di prevenzione e di ripristino. Oggi il timore fondato, però, è che le risorse mobilitate andranno ancora una volta alla seconda voce, il ripristino, e che la prevenzione resterà in attesa di risorse ad oggi imprevedibili.

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