Non è facile fare il punto della 15^ Festa del cinema di Roma senza dover tirare in ballo le contingenze legate alla pandemia, alla seconda ondata del coronavirus, ai numeri di contagi e malati che pongono tutti in stato di preallarme. Non è facile quindi parlare di Festa e non tanto per un fattore emotivo o psicologico, quanto proprio per una questione empirica: i numeri dei presenti all’Auditorium erano, giocoforza, molti meno degli altri anni, le aree della manifestazione hanno dovuto fare i conti con igienizzazioni, distanze e soprattutto con le strette che il Governo prima e la Regione Lazio poi ha imposto sul numero di presenti all’interno di uno spazio chiuso, fosse anche una sala con 1.000 posti disponibili.
Le attività lavorative, le presentazioni, le conferenze e le passerelle si sono rivestite di una piega surreale, che più che celebrare il cinema celebrava la resistenza del cinema, e di parte dei cinefili, agli scogli che la vita mette dinanzi a esso. Soprattutto, a prendere la palla al balzo sono stati i giovani: giovani appassionati, aspiranti critici e giornalisti che hanno “riempito” le sale – soprattutto quelle del cinema Savoy, uno dei distaccamenti cittadini della Festa – e cercato di non far spegnere il fuoco di un festival a trazione popolare; e i giovani autori, di cui il programma si è riempito.
Anche perché la sezione parallela Alice nella città ha dimostrato un invidiabile stato di salute, sfruttando anche un luogo come la Nuvola la cui sala cinematografica è bellissima ed è stata quasi sempre esaurita e proiettando forse il film più bello visto alla Festa: Wendy, la rilettura contemporanea di Peter Pan fatta da Benh Zeitlin.
Sebbene abbia vinto il Premio del pubblico – l’unico esistente da quando sono stati eliminati il concorso e le giurie – uno dei film provenienti da Cannes, ovvero Estate ’85 di François Ozon, il meglio della Festa è venuto da altre parti: per esempio in ottima forma, e lo si sapeva già, sono i documentari tra le cose più belle viste all’Auditorium Ennio Morricone: Time di Garrett Bradley racconta la lotta di una donna per tirare fuori il marito innocente dalla galera e veleggia verso l’Oscar; Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli mette in scena una sorta di confessione del Pupone; The Jump di Geidre Zickyte narra del tentativo di diserzione da parte di un marinaio sovietico. Tre racconti in prima persona che oltre a raccontare storie emozionanti cercano anche vie interessanti per usare il cinema in forma “diaristica”, come vie interessanti per sfruttare le possibilità sensoriali del cinema le cerca The Reason I Jump di Jerry Rothwell che mostra le possibilità di linguaggio dei ragazzi autistici che non parlano.
Se il cinema popolare ha deciso di aspettare tempi migliori (o di bypassare le sale come Soul o Le streghe di Robert Zemeckis) e i grandi autori preferiscono puntare su Venezia, Cannes o altri festival, alla Festa resta il cinema medio – che di rado tradisce le aspettative – oppure gli Incontri: il punto di forza della Festa stavolta però si è tramutato nel punto debole, quello che ha più sofferto dalle misure preventive del Governo. Annullamenti forzati e poche persone presenti – per scelta o per obbligo – hanno trasformato il cuore pulsante della Festa in un ultimo fortino, in un impianto residuale suo malgrado nel gesto di speranza per un 2021 migliore. Per tutti certo, non solo per i cinefili e i cineasti: e per tutti sarà l’obiettivo dei festival e della Festa per il prossimo anno. Perché il cinema torni davvero a farsi sentire come un’arte popolare e collettiva.