All’on. Ettore Rosato saranno fischiate le orecchie almeno sino a lunedì sera, quando è scaduto il termine per la presentazione delle candidature. Nessuno tra gli uomini politici e tra gli osservatori ha speso una parola buona per la legge elettorale che porta il suo nome, anzi tutti si sono espressi in termini terribili. Intendiamoci, la legge Rosato in effetti è terribile, non quanto la legge elettorale di Renzi, che resta la peggiore.
La situazione ovviamente è stata aggravata dalla riduzione del numero dei parlamentari da eleggere e dalle dimensioni assunte dai collegi uninominali. Tutti i leader politici, infatti, si sono rifugiati nella posizione di capolista dei listini, in più collegi plurinominali.
Eppure l’intero Parlamento, e non solo Rosato, avevano a disposizione nel 2017 la sentenza della Corte costituzionale n. 35 (che censurava la legge Renzi), dove si ribadivano i principi costituzionali del diritto elettorale già espressi nella sentenza n. 1 del 2014 (che censurava la legge Calderoli).
Perché allora fare una pessima legge elettorale?
Si poteva fare una legge secondo le aspirazioni dei partiti, ma in osservanza dei principi costituzionali. Fatta come è, la legge non serve ai partiti e, soprattutto non serve ai cittadini. Ai primi, perché non consente di organizzare la politica in modo efficace per la durata della legislatura, e ai secondi, perché non consente di riconoscere gli effetti del proprio voto. Non ci si deve chiedere perché vi è la disaffezione al voto e alle istituzioni parlamentari, quando l’elettore non trova più un motivo valido per votare.
Non intendo ovviamente avallare la disaffezione al voto, ma dire che la slealtà dei partiti, espressa attraverso un continuo rimestare di leggi elettorali, non agevola la partecipazione. La legge elettorale dovrebbe essere intoccabile quasi come la Costituzione. Così è nelle democrazie mature, così non è in Italia.
Come si fa a giudicare se una legge elettorale è fatta bene oppure è pessima?
È abbastanza semplice. Una legge elettorale ubbidisce a due principi costituzionali: al principio di rappresentanza e a quello di governabilità. Dei due il primo è quello più importante, anche perché, dopo le elezioni, a Parlamento fatto, alle forze politiche spetta l’obbligo di collaborare e, se proprio la collaborazione non è possibile, c’è sempre il rimedio dello scioglimento anticipato anche a breve termine, come è accaduto in Grecia e in Spagna. Ma una governabilità senza rappresentanza – come Renzi pretenderebbe – non è proprio ammissibile costituzionalmente, a meno di non declinare il nostro ordinamento verso un parlamentarismo autoritario.
Da queste semplici premesse discendono tutte le altre regole che possono servire a formare i sistemi elettorali, sia proporzionali che maggioritari; così come le clausole di sbarramento e i premi di maggioranza; o il rispetto della regola della conoscibilità dei candidati e il voto di preferenza; ecc.
Vi è poi un secondo elemento per giudicare ogni legge elettorale ed è quello di calcolare quanto potere assegna all’elettore e al suo voto.
Una buona legge conforme al diritto elettorale costituzionale dovrebbe assicurare tre tipi di poteri all’elettore: il primo, quello di proporre le candidature direttamente; il secondo, quello di gestire le elezioni; il terzo, quello di decidere il proprio rappresentante e – se la legge è proprio di grande impatto – anche il programma di governo e la scelta del primo ministro.
Cosa fa, invece, la lex Rosati?
Ha eliminato il potere dell’elettore di presentare le candidature, con il trucco che i gruppi presenti in Parlamento non devono raccogliere le firme elettorali. Ciò ha permesso di assistere allo scambio indecoroso tra simboli detenuti da fantasmi politici, come Tabacci, la Bonino e lo stesso Renzi, a loro volta ottenuti per “partenogenesi parlamentare”, e giovani politici, come Calenda e Di Maio, che avrebbero dovuto affrontare la prova della raccolta delle firme per legittimarsi nell’arena politica. Invece, i primi hanno avuto l’interesse a trovare il loro posticino sicuro e i secondi di fare politica in barba a qualsiasi legame effettivo con gli elettori.
Del potere di gestire le elezioni i cittadini sembrano essere un po’ stufi, come mostrano fatti recenti, perché in realtà non gestiscono più il processo elettorale, ma lo amministrano. Non sono più parte dell’impegno politico-elettorale come accadeva prima; bensì somigliano a quegli impiegati pubblici che aborriscono il contatto con il pubblico e non hanno voglia di sbrigare le pratiche. Questa è una conseguenza del generale decadimento della democrazia.
Quanto, poi, al rapporto di rappresentanza, la legge elettorale attuale è un vero disastro. Se considero buono un candidato nel maggioritario, ma mi riconosco in un listino di un gruppo diverso, contrariamente a quanto accade in Germania, in cui l’elettore dispone di due voti, qui devo scegliere o l’uno o l’altro, perché il voto è congiunto. È chiaro che si tratta di un’opzione per imporre dei limiti all’elettore, per metterlo in crisi davanti alla scheda. Peraltro, rispetto al listino l’elettore non ha alcun potere, perché non ha un voto di preferenza.
Inoltre i candidati dei collegi, lo vedremo a liste pubblicate, nelle condizioni determinate dal taglio dei parlamentari ben difficilmente possono essere espressione del territorio, di un territorio in grado di esprimere un candidato conoscibile all’elettore, come accadeva con la legge Mattarella del 1993; lì un collegio alla Camera incorporava circa 100mila elettori e non circa 400mila come è adesso, e al Senato si raddoppia.
Con queste dimensioni i territori sono privati della loro carica rappresentativa e solo figure di carattere nazionale potrebbero concorrere, ma non figure appunto rilevanti del territorio. Si annuncia la sfida tra Berlusconi e Renzi nel collegio di Monza, quella di Bonino e Calenda nel collegio-bene dei Parioli, o ancora quella di Casini e Sgarbi a Bologna, ma non è più il territorio ad esprimersi.
Infine, questa legge somiglia al gioco dell’asso pigliatutto che si faceva da bambini. Si vota per eleggere i candidati di un partito e si corre il rischio di eleggere i candidati di un altro partito. D’accordo, sono tutti candidati di liste coalizzate, ma la deviazione dalla volontà dell’elettore resta ugualmente. Ciò accade con i voti delle liste sotto soglia del 3%, che vengono spartiti dalle liste sopra soglia. Ora, al di là della violazione del principio di rappresentanza, questo meccanismo è politicamente perverso, perché spinge alla frantumazione del sistema politico e la coalizione del Pd in tal senso rappresenta il massimo.
A parte la coerenza politica tra le liste, che coalizione è quella del Pd, dove tutti i partiti alleati di questo, cioè Verdi e SI, +Europa e Impegno civico, sono tutti sotto soglia e solo il Pd presenta una discreta massa critica?
Anche la governabilità è un principio alla cui realizzazione la legge elettorale deve tendere. E qui non ci siamo proprio. Basti considerare quanto accaduto nella legislatura che si è appena conclusa. Le coalizioni del 2018 sono saltate tutte e subito; abbiamo avuto tre governi con maggioranze tutte inedite. Ma nulla esclude che non accada lo stesso pure nella prossima legislatura; c’è chi, come Calenda, addirittura lo auspica. I partiti si stanno preparando a questo possibile evento presentando propri programmi, diversi da quelli della coalizione cui appartengono. In una coalizione elettorale non si dovrebbe fare così, e gli elettori già intuiscono che nessuno rispetterà i patti elettorali. La democrazia di “palazzo”, lontana dal cuore e dalla mente degli elettori, non è vera democrazia.
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