Pochi se ne rendono conto, ma con il deposito delle liste – che scadrà tra poche ore – sarà già possibile sapere il nome e cognome di oltre il 90% degli eletti a Camera e Senato. Frutto del “Rosatellum” ma anche della capacità dei partiti di sfruttare tutte le possibilità della legge per assicurarsi il controllo totale dei gruppi parlamentari e quindi praticamente stabilire in anticipo chi sarà eletto e chi no.
Quel 10% in bilico è solo legato al gioco dei resti, che possono più o meno variare tra questo o quel partito, ma – pur considerando logiche discordanze del voto “vero” rispetto ai sondaggi – tutti i posti (anche quelli di riserva) sono già comunque più o meno “blindati” e quelli in bilico assegnati a pluri-candidati, proprio perché non ci siano margini di errore.
Al povero elettore restano poche scelte, anzi una sola: indicare il partito preferito e stop.
Da quell’unico segno sulla scheda scatterà automaticamente il voto al candidato nel collegio uninominale per la coalizione prescelta (non è possibile il voto disgiunto), ma anche il voto per il listino “proporzionale” (con lista bloccata). Se un elettore vota il solo candidato dell’uninominale, il suo voto è comunque ripartito “pro-quota” tra i partiti che appoggiano il candidato nel collegio e quindi l’elettore automaticamente vota anche per loro (magari maggiormente proprio per il partito che gli piace meno di tutti).
Non solo: per aggirare l’obbligo dell’alternanza di genere, un po’ tutti hanno candidato le stesse persone in più collegi circoscrizionali (fino a 5) garantendosi quindi anche per gli eventuali subentri in caso di doppia elezione, con il ripescaggio preannunciato del successivo candidato in lista, alcune “incastrate” fino alla terza o quarta posizione ad evitare sorprese.
Quando Enrico Letta – per esempio – annuncia la sua sfida alla Lega nel collegio di Vicenza sa benissimo che perderà, ma è comunque sicuro della propria elezione essendo contemporaneamente il primo di lista in altre circoscrizioni.
In altre parole non rischia niente, ma visto che, come lui, altri leader saranno eletti in diverse regioni, potranno a loro volta decidere per quale collegio optare, recuperando non il secondo ma addirittura il terzo candidato. Questo perché automaticamente una donna (questo avviene di solito, per la Meloni varrà il contrario) sarà posizionata seconda ma, opportunamente indicata anche in altre circoscrizioni e potendo eventualmente essere eletta in una soltanto, si auto-eliminerà da tutte le altre dove dovesse mai subentrare al proprio leader.
Trucchetti del sistema, come l’annunciata sfida Calenda-Bonino a Roma che finirà probabilmente 0 a 0, ma con entrambi i contendenti che saranno comunque eletti da un’altra parte. Aspettare per credere.
C’è di più. Le circoscrizioni elettorali prevedono (salvo che per le micro-regioni come Molise e Valle d’Aosta, che di candidati ne hanno uno solo e quindi c’è poco da scegliere) dai 4 agli 8 seggi da assegnare, e quindi – soprattutto in quelle minori – si sa già, nella pratica, quali partiti conquisteranno i seggi. Solo i partiti molto piccoli, quelli che sfioreranno il 3% su base nazionale e quindi eleggeranno soltanto un pugno di candidati e tutti con i “resti” possono dubitare oggi dove “usciranno” i loro eletti; ma – per non sbagliare – i leader si sono candidati in più regioni e la matematica spiega che quei seggi saranno più facili da conquistare nelle circoscrizioni più grandi dove, a parità percentuale di voti, il “resto” diventa più elevato e quindi più sicuro. Difficile da spiegare per iscritto tutto il meccanismo di calcolo, ma fidatevi che è proprio così.
Morale: nomi e seggi blindati, nessuna preferenza da esprimere, nomi bloccati ed automatici anche nei collegi uninominali, nessun voto disgiunto, in pratica superamento del problema di rispettare la pluralità di genere e schede “di protesta” – come quelle bianche e nulle – che (come sempre) non entrano nel calcolo dei quozienti.
È evidente la volontà del legislatore di permettere un controllo totale degli apparati e dei leader su chi sarà eletto, che quindi dovrà “giurare obbedienza” a chi lo ha candidato, salvo cambiare casacca (come è successo a quasi metà dei parlamentari uscenti) ma – da quel momento in poi – il transfuga dipenderà da un nuovo padrone, senza il quale non troverà posto, salvo nuove riforme elettorali, la prossima volta.
Con pochissime parole nel testo della legge si poteva impedire tutto questo (bastava potersi candidare in una sola posizione) ma evidentemente ciò non si voleva avvenisse.
A questo punto tutti avranno capito che un eventuale candidato di valore sarà eletto non in base alle proprie capacità ed esperienza o per i suoi titoli, ma solo e soltanto grazie alla sua posizione di lista (salvo che nella circoscrizione estero) e questo spiega anche la drammatica caduta della qualità degli eletti e la loro totale dipendenza dai vertici.
Difficile quindi pensare che il nuovo Parlamento sia espressione di alta qualità, anche perché la riduzione dei seggi prevede un terzo di posti in meno e – se le previsioni di questo o quel partito sono poi addirittura di una diminuzione dei voti rispetto al 2018 – ecco che era già quasi impossibile garantire la gran parte degli uscenti; altro che “volti nuovi” e arrivo di persone di qualità.
Insomma, è una “democrazia limitata”; ma questo non lo ammette nessuno.
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