Un noto detto marinaro dice che “ognuno sa navigare quando è buon vento”. Quindi, è il vento cattivo, lo scatenarsi della tempesta, a determinare le capacità del capitano e dei suoi uomini in manovra. Quanto più il tempo sarà burrascoso e si alzano le onde tanto più si dovrà sperare che la nave sia governata da chi ci sa fare.
Non servirà possedere solo conoscenze tecniche, mai come in questi casi necessarie ma non sufficienti. Saranno il carattere di chi comanda e la buona disposizione di chi esegue, la tempestività nell’assumere decisioni, la velocità e la precisione nell’eseguirle, a determinare la vita o la morte di quell’equipaggio e dei passeggeri.
Quando si è tutti sulla stessa barca si tende a cooperare perché la salvezza dell’uno è davvero legata alla salvezza dell’altro. Pur nella differenza delle responsabilità, delle competenze e dei ruoli si forma una sorta di disciplina naturale dovuta all’eccezionalità dell’evento e allo spirito di sopravvivenza.
Quando si è tutti sulla stessa barca, appunto. Ma per quanto questa metafora sia abusata non calza affatto alla situazione attuale: dove c’è in effetti un evento inaspettato e straordinario, ma non tutti rischiano la pelle allo stesso modo. Sala comando, equipaggio e passeggeri sono chiaramente su imbarcazioni diverse.
I più esposti sono i passeggeri – le imprese e le famiglie per meglio intenderci – che devono affrontare i capricci e le insidie del mare aperto dovendo fare affidamento su disposizioni e strumenti che chi opera nel campo calmo di un porto deve apprestare. Il senso del pericolo e gli stati d’animo non possono essere gli stessi.
Da una parte c’è la possibilità attuale di affogare e perdere in un momento tutti i beni più preziosi, i sogni e la speranza; dall’altra sono in ballo – nel più nobile dei casi – il consenso e la reputazione. La cui tenuta non dipende nemmeno tanto dai risultati che si otterranno, ma dal racconto che si saprà fare delle proprie gesta.
Per garantire la piena solidarietà tra chi propone e dispone e chi invece subisce il comando – perché si sia veramente tutti sulla stessa barca e si affronti la stessa sorte -, occorrerebbe collegare più intimamente le fortune degli uni alle fortune degli altri. Quelle economiche, s’intende, relative alla fase 2 della lotta al coronavirus.
Se il pingue corpo burocratico dello Stato dovesse subire al pari degli altri corpi le conseguenze della sventura accresciute (o diminuite) dalle proprie azioni, inazioni e interpretazioni sarebbe di certo più attento e sollecito a non sprecare un minuto del proprio tempo puntando a non perdere nemmeno un passeggero.
E se sfortunatamente le cose dovessero andare male – per forza maggiore o per propria insipienza – e si dovesse affrontare un lungo e doloroso periodo di riparazione del naviglio al quale tutti saranno chiamati a contribuire sarà giusto che i sacrifici siano equamente distribuiti e non tocchino ai soliti noti.
Per responsabilizzare tutti occorre che tutti siano coinvolti negli sforzi di rinascita. E che tutti paghino il loro tributo alla causa comune. Se la parola più usata, fino all’abuso, è solidarietà non ci può essere chi si dispera e chi considera con distacco la disperazione degli altri riparandosi dietro la propria presunta intoccabilità.