Abbiamo lasciato l’eterna telenovela democristiana alle carte bollate tra Totò Cuffaro, proclamatosi segretario nazionale in un improbabile ventesimo congresso, e Gianfranco Rotondi, detentore del simbolo Dc (a suo tempo concesso all’Udc) e del nome, usato da Rotondi stesso per accalappiare a suo tempo un posto nell’ultimo governo di Berlusconi (per giunta insieme a Pizza, altro pretendente dell’eredità democristiana, altro sottosegretario di Berlusconi; il povero Silvio aveva una poltrona per tutti i democristiani).



Mentre si aspetta di sapere in quale sezione del tribunale di Roma sarà incardinato il giudizio, il vecchio Cappa non si appassiona alla vicenda giudiziaria, perché – conoscendo uomini e cose – sa bene che sotto traccia si continua a trattare per un accordo che eviti un giudizio oltremodo lungo e tortuoso, perché investirebbe non solo il nome e il simbolo, ma anche il patrimonio del vecchio partito, oggi saldamente nelle mani dei vecchi popolari (non a caso metà delle federazioni del Pd sono ospitate dalle vecchie sedi della Democrazia cristiana, come la Schlein sa benissimo, tant’è che si tiene stretta a Dario Franceschini per non finire sfrattata in mezza Italia).



Mentre rullano i tamburi dei tanti segretari delle tante Dc in lite, mentre gli avvocati si affannano e preparano succulente fatture di spese, nella migliore tradizione democristiana si tratta dietro le quinte. Sia Cuffaro che Rotondi sanno di dover cedere qualcosa: Cuffaro sa perfettamente di non avere in mano niente di valido dal punto di vista giuridico, dopo il ventesimo può fare pure il ventunesimo congresso della Dc, ma lo scudo crociato continua a usarlo Cesa, e gli immobili il Pd (tanto è chiaro questo, che Castagnetti e Cesa si tengono ben lontani dalla disputa).

Rotondi nemmeno ha interesse al casino: la Meloni gli ha chiesto di allestire un soggetto identitario, e se lui invece di un partito le porta una causa di tribunale, “io sono Giorgia” ci mette cinque minuti cinque a buttarlo per le scale di palazzo Chigi.



Ecco allora l’ideona che gira nelle brizzolate teste degli ultimi democristiani: via le cause e le discussioni, abbraccio di tutti da Cesa a Rotondi a Cuffaro, con la benedizione a distanza pure di Castagnetti sempre più incavolato per il trattamento riservato ai cattolici dalla nuova segreteria del Pd. Il problema è sempre il solito: chi fa il segretario, insomma chi comanda. La soluzione che gira è sorprendente, ma non per chi conosce i riti democristiani: passo indietro di tutti, e un segretario autorevole incaricato di rilanciare il partito finalmente riunificato. Chi potrà essere mai?

Una volta si chiamavano i capi storici nei momenti terribili, da Moro a Fanfani a De Mita. Ora l’ultimo capo storico vivente è Arnaldo Forlani, che però ha quasi cento anni. E allora tocca bussare alla porta di uno che democristiano è certamente e ha il curriculum giusto per mettere tutti a tacere: Matteo Renzi, proprio lui, fresco di divorzio con Calenda e profilo ideale per rilanciare la Dc, peraltro unico partito al mondo dove lui potrebbe ancora apparire nuovo, vista la platea (i più giovani sono Cuffaro e Rotondi, entrambi già nonni, vedi tu). Per la via scudocrociata, inoltre, Renzi avrebbe il contenitore giusto per attraccare nella maggioranza di governo, come prova a fare ormai sempre più scopertamente.

Pare che la folle idea sia del vice di Cuffaro, Giampiero Samorì, modenese di sessantatré anni ed enormi aspirazioni, dieci anni fa si presentava come erede di Berlusconi, ora studia da kingmaker di Renzi segretario democristiano.

Fantasie? Chissà, certo è che Samorì è consuocero di Denis Verdini, uno che con Renzi parla una volta al giorno. Difficile che Samorì ipotizzasse questo scenario senza aver avuto almeno un ok di massima.

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