La settimana scorsa ho avuto un’idea abbastanza intelligente. Qualche volta mi capita. Ho preparato una breve spiegazione dei quattro grandi quadri che si trovano nel Santuario di San Giuseppe. Chi entra e li guarda dice che sono proprio belli, ma se poi si spiega il significato più profondo che a volte si cela dietro certi simboli iconografici, li gusta ancor di più.
Siccome il 60 per cento dei visitatori sono stranieri e vengono proprio da tutti i Paesi del mondo, ho deciso di offrire la traduzione in diverse lingue: inglese, naturalmente, ma anche francese, spagnolo, tedesco, russo e, da poco, per una garbata protesta di alcuni amici ucraini, anche nella loro lingua.
Benché essi stessi spesso parlino tra loro preferibilmente in russo, adesso, in nome di una dichiarata esigenza di libertà, vogliono che tutto sia scritto anche in ucraino. Comunque, come vedete, li ho accontentati. Ora spero che non vengano da me i baschi e i catalani pretendendo una loro versione accanto a quella spagnola, e i corsi la loro accanto a quella francese, gli altoatesini accanto a quella tedesca. Quanto ai bergamaschi ho già fatto loro presente, “pota”, che nonostante la mia amicizia con alcuni di loro non li potrò accontentare.
La questione linguistica che ho espresso, oltre al rimpianto di quel tempo in cui almeno tutti i cristiani si intendevano fra loro in latino, mi ha fatto capire che al di là di certi stereotipi il legame con la propria tradizione, che si esprime innanzitutto nella propria lingua madre, è più forte di quello che pensiamo. Diceva il noto, almeno a me, poeta e linguista kazako Olzhas Suleimenov, primo ambasciatore del suo Paese in Italia, che la lingua è il primo museo di un popolo. La sua gente sapeva esprimere la propria lingua, per particolari vicende storiche, in più di 15 alfabeti, pur conservando ogni volta il sapore della vita dei nomadi della steppa. Ad esempio, comunque lo si scriva, se dicono che una cosa c’è (bar) vuole dire che va e se va vuol dire che c’è.
Oggi nessuno metterebbe in discussione l’utilità dell’inglese come lingua pressoché universale di comunicazione. Ma al di là della difficoltà di parlare in inglese con tanti indiani o cinesi, rimane il fatto che nelle cose che ci stanno a cuore, ad esempio per esprimere i sentimenti più intimi, preferiamo esprimerci nella nostra lingua madre. E quando vogliamo proprio farci capire dopo che abbiamo espresso un concetto in inglese, è bene ripeterlo, se la conosciamo, nella lingua del nostro interlocutore.
Un esempio ci viene proprio da uno dei quadri che ci sono nel Santuario e che è intitolato Lo sposalizio di Maria e Giuseppe. I due vengono rappresentati mentre si scambiano gli anelli, cosa che certamente gli ebrei del loro tempo non usavano fare. Il quadro, in effetti, risente della decisione del Concilio di Trento di stabilire per il matrimonio una forma canonica che prevedeva la presenza del sacerdote e altri rituali, tra cui lo scambio degli anelli.
Che cosa sia un matrimonio, più o meno, lo sanno tutte le genti, ma che la sua origine sia qualcosa di sacro non è cosa scontata. Così la spiegazione del fatto rappresentato nel quadro non può prescindere dalla spiegazione del contesto in cui avviene quel fatto, ma anche di quello in cui vivono le persone che ammirano il quadro. Del resto mi viene da pensare, soprattutto nel caso di alcuni giovani visitatori, che non sia più scontato dire che cosa sia uno sposalizio, neppure per gli italiani. Per alcuni è quella specie di formalità che si tiene tra l’addio al celibato e la festa di nozze.
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