Un timore sta attanagliando il governo Draghi: è la sindrome dell’anello debole. La paura di essere considerato come il punto più fragile del fronte antirusso, e soprattutto l’angoscia di esserlo veramente. Più l’Italia si manifesta atlantista, anzi iperatlantista, più sente le pressioni di chi vorrebbe farla cedere. Il doppio attacco arrivato ieri da Mosca è diretto a colpire proprio questa fragilità.



L’affondo è stato portato da un funzionario del ministero degli Esteri russo, Alexei Paromonov, che sarà pure sconosciuto ma non è certo l’ultimo arrivato, visto che la sua carica è di direttore del dipartimento europeo del dicastero. Paromonov prima ha minacciato l’Italia di “conseguenze irreversibili” dalla “guerra finanziaria ed economica totale” scatenata dall’Unione Europea contro la Russia a colpi di sanzioni; poi ha preso di mira direttamente il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini: “Un falco antirusso”, lo ha definito Paromonov, uno che durante la pandemia ha ricevuto “un’assistenza significativa” da Mosca mentre ora è tra gli “ispiratori della campagna antirussa”.



Le accuse sono state respinte dallo stesso premier Mario Draghi. Ma la chiave degli attacchi va colta in un’altra frase di Paromonov: “Non vorremmo che la logica antirussa del ministro francese Bruno Le Maire trovasse seguaci in Italia”.

Qui il Cremlino lascia intendere due cose: che ormai Roma si fa dettare l’agenda di politica estera da Parigi e che, tuttavia, la compattezza dell’Ue e della Nato potrebbe essere incrinata proprio dalla debolezza italiana. Essere iperatlantisti non sempre paga: lo sa bene Enrico Letta, che stava per mettere le mani sulla poltrona di segretario generale della Nato ma ha dovuto cedere il passo alla proroga per il più affidabile Jens Stoltenberg fino al 2023. Il grande profilo internazionale conquistato da Draghi un anno fa al tempo della campagna vaccinale è già evaporato.



Non è in discussione la nostra lealtà con la Nato. A metà settimana erano già decollati dall’aeroporto militare di Pratica di Mare 27 apparecchi cargo destinati alla Polonia. Non erano carichi di cibo e coperte per i profughi ucraini: è chiaro che trasportavano anche armi destinate alla resistenza, con il rischio che finiscano anche alle milizie più estremiste.

La questione è la debolezza intrinseca dell’Italia. Non si sa quali siano le “conseguenze irreversibili” minacciate da Paromonov. C’è chi sospetta che Mosca tenga scheletri nell’armadio che potrebbero compromettere qualche alto papavero italiano, ma più verosimilmente si tratta di conseguenze economiche. Siamo un Paese che dipende sia dalla Russia sia dall’Ucraina per le forniture di fonti energetiche, di materie prime industriali e di provviste alimentari. Se il conflitto diventasse una guerra a lungo termine, saremmo la nazione occidentale che pagherebbe il prezzo più alto perché non abbiamo nostre fonti di petrolio, di gas, di metalli, di cereali.

Abbiamo ricevuto una cartolina precetto con un timbro soprattutto ideologico e abbiamo risposto “presente”, alzando pure la voce per tacitare i dubbi. Ma l’iperatlantismo ha un prezzo, che al momento è ancora sconosciuto. Aleggia nelle minacce dalla Russia ed è totalmente assente dalle cose che il governo dice alla nazione. Torneremo all’austerity degli anni Settanta, con le targhe alterne e i lampioni spenti? Gli stipendi perderanno valore? Il tenore di vita si abbasserà? Verrà razionato internet? Le aziende lavoreranno a turno? I cittadini hanno diritto di sapere che cosa li attende. E chi dovrebbe dirglielo? Paromonov, Zelensky? Oppure Draghi?