Un fantasma si aggira per l’Europa ed è il fantasma della Guerra fredda. Parliamo della nostalgia per un mondo in cui l’equilibrio del terrore garantiva un ordine basato su un sistema bipolare. Un mondo di ideologie e di inimicizia radicale, ma anche di sviluppo economico e benessere. La paura di una veloce escalation nucleare coesisteva con la certezza che dal punto di vista economico le generazioni future avrebbero conosciuto un livello di benessere più alto di quello delle generazioni precedenti. Una globalizzazione dimezzata, per usare una concettualizzazione di Osterhammel e Peterson, in cui due superpotenze assicuravano una forma di stabilità. Un mondo più governabile, più semplice e con più certezze.
La guerra rappresenta spesso un riduttore di complessità, lo strumento più veloce per semplificare la realtà riportandola alla brutale chiarezza dei rapporti di forza. Anche per questo motivo il discorso di Zelensky al Bundestag sembra ispirato da un grande senso della Storia. Citando il discorso di Reagan, il presidente ucraino ha tratteggiato i confini del mondo di domani, un mondo in cui ogni bomba alza il muro che separa l’Est dall’Occidente.
La guerra in Ucraina più che l’innesco del Grande Reset – caro ai cospirazionisti e ai teorici della distruzione creatrice – sembra avviare un Grande Rewind, che riavvolge il nastro della storia, riportando il mondo allo schema del secondo dopoguerra, con la differenza che invece che al Piano Marshall la ricostruzione è affidata alle Banche centrali e, almeno per l’Unione Europea, al Quantitative easing permanente.
Un ritorno integrale al passato è, però, impossibile e la polarizzazione della globalizzazione a cui stiamo assistendo di certo non ha nella Russia uno dei suoi centri di gravità. La trattativa fra Usa e Cina cadenzerà le tappe del processo che porterà al nuovo equilibrio globale, ma le conseguenze dell’invasione dell’Ucraina mettono Pechino in seria difficoltà e la costringono a subire l’iniziativa che al momento è dettata dagli americani.
Quando il 4 febbraio Xi Jinping e Vladimir Putin hanno firmato una dichiarazione congiunta, in cui si assicuravano reciproco sostegno in politica estera e si affermava che l’amicizia fra i due Paesi “non ha confini” e non si precludevano limiti nella cooperazione, il leader cinese non si aspettava che l’avventurismo tardo-imperiale di Putin l’avrebbe portato a prendere un rischio che non poteva permettersi. Lo stallo in cui versa quella che nelle intenzioni dello Stato maggiore russo doveva essere una guerra lampo crea non pochi problemi a Xi, che nella relazione speciale con Putin aveva investito molta della sua personale credibilità internazionale, arrivando addirittura a definire il leader russo come il suo “migliore, più intimo amico”.
I malumori che si registrano all’interno del Partito comunista cinese fanno emergere perplessità e timori che l’alleanza con la Russia possa portare il Paese in un insostenibile isolamento. Quando Hu Wei, un politologo dell’Ufficio del consigliere del Consiglio di Stato, legato al premier Li Keqiang, aveva apertamente chiesto di tagliare i rapporti con la Russia, la sinistra del partito, quella dei maoisti di sinistra, aveva immediatamente fatto sentire la sua voce, denunciando quello che è stato definito un atteggiamento filoamericano. Una situazione che lascia prefigurare una spaccatura all’interno del Pcc, che viene confermata anche dall’atteggiamento di Li Keqiang, il quale in una recente conferenza stampa ha palesato serio imbarazzo nel commentare l’invasione russa dell’Ucraina.
Nel corso della videoconferenza con il presidente americano Biden, Xi deve anche aver tenuto conto delle dinamiche interne al partito quando ha sostenuto che un conflitto aperto non gioverebbe a nessuno dei due contendenti, ma ancora più chiaro è stato il messaggio rivolto a chi, all’interno dell’amministrazione americana, ha “interpretato e giudicato male le intenzioni strategiche della Cina”.
Inoltre, condannando apertamente chi ha provato a mettere in dubbio “l’importante consenso raggiunto” con il presidente Biden, Xi se l’è presa con quelli che possiamo definire i nostalgici della Guerra fredda, con quel partito, cioè, che punta a danneggiare in modo irreversibile le relazioni fra i due Paesi.
Sono in molti gli analisti a credere che il decoupling fra l’economia Usa e quella cinese danneggerebbe soprattutto Pechino, ma ormai il processo di disaccoppiamento sembra irreversibile; quello che piuttosto è sul tavolo è la sua tempistica. Xi sembra aver preso atto che la Cina si è trovata impreparata all’accelerazione del processo di polarizzazione della globalizzazione causato dalla guerra in Ucraina. La Cina non è pronta né militarmente – il suo esercito si basa sui modelli di carri armati e aerei russi messi in scacco dalla tecnologia occidentale fornita agli ucraini – né economicamente, come dimostra il rallentamento considerevole della sua crescita e il consistente deflusso in atto di capitali esteri, cosa che rappresenta il più grande incubo per Pechino.
Benché sia molto probabile che la Cina voglia trovare un sistema alternativo a Swift e voglia utilizzare lo yuan digitale come strumento di sfida nei confronti del dollaro, al momento non ha la forza economica e geopolitica per sostenere un tale progetto. Inoltre, salvare la Russia dal default rappresenterebbe un costo insostenibile.
L’avventurismo di Putin ha quindi consegnato al partito dei nostalgici della Guerra fredda tutti gli strumenti per scandire la timeline della crisi in corso. Purtroppo, però, la Storia non si presenta nella stessa forma e al posto dell’equilibrio che caratterizzava la Guerra fredda, i soggetti in campo devono fare i conti con un’instabilità sistemica che, se al momento sembra giovare agli Stati Uniti, forti di un dollaro militarizzato e di un’indubbia superiorità tecnologica, potrebbe innescare una disastrosa escalation, che sembra affascinare solo i Dottor Stranamore che affollano le nostre televisioni.
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