Per Vladimir Putin, l’Ucraina rappresentava una linea rossa che non poteva essere attraversata. Questo paese, con una popolazione superiore ai quaranta milioni di persone e cruciale per l’economia e la sicurezza russa, era visto da Putin come inaccettabile che potesse avvicinarsi all’Occidente. Tuttavia, la Rivoluzione Arancione del 2004 in Ucraina pose una sfida significativa all’influenza di Putin, scatenata da una crisi originata nel settembre 2000. Durante quel periodo, il giornalista e politico georgiano Georgij Gongadze, critico del presidente ucraino Leonid Kučma e dei suoi stretti rapporti con Putin, pubblicò un articolo accusando Oleksandr Volkov, un influente consigliere di Kučma di legami con la criminalità organizzata russa, di corruzione.



Volkov, un oligarca di spicco, era noto per aver facilitato l’ingresso di Dmytro Firtaš nel mercato energetico ucraino e aveva stretto rapporti con figure del crimine organizzato fin dal 1994. La sua reputazione era talmente negativa che, secondo gli studiosi Alan A. Block e Constance A. Weaver, era temuto da tutti tranne che dai criminali stessi. Nell’articolo di Gongadze, si affermava che Volkov detenesse conti bancari esteri con decine di milioni di dollari, di cui cinque milioni provenienti dalla Seabeco, un’entità guidata da Boris Birstein e altri.



Dopo aver esposto le attività illecite di Volkov su “Ukraïns’ka Pravda”, Gongadze scomparve il 16 settembre 2000. Inizialmente, si pensava che avesse inscenato il proprio rapimento, ma questa teoria fu smentita quando, due mesi dopo, il suo corpo decapitato fu trovato a distanza dal centro di Kiev, confermando il suo brutale assassinio.

L’omicidio del giornalista Georgij Gongadze rimane irrisolto, ma ci sono forti indizi che suggeriscono un coinvolgimento di alto livello nel governo ucraino nella sua morte. Elemento chiave in questo contesto sono le registrazioni segrete di 500 ore fatte nell’ufficio del presidente ucraino Leonid Kučma da una sua guardia del corpo tra il 1999 e il 2000. In queste registrazioni, Kučma appare ordinare l’allontanamento di Gongadze, suggerendo di consegnarlo ai ceceni o di tenerlo in ostaggio. Queste parole furono seguite da un assenso da parte di chi si presume fosse il ministro degli interni, Jurij Kravčenko, che confermò di aver preparato un piano contro Gongadze.



Nonostante Kučma neghi l’autenticità di queste registrazioni, un’analisi forense condotta da un ex esperto dell’FBI presso un laboratorio privato in Virginia ha confermato la loro autenticità nel 2001. Ulteriori analisi dell’FBI hanno confermato questa conclusione nel 2002.

L’uccisione di Gongadze fu solo l’inizio di una serie di morti misteriose di giornalisti e critici del regime di Putin, con almeno settanta giornalisti assassinati in Russia e Ucraina tra il 1992 e il 2018. Queste vittime avevano esposto la corruzione e l’arricchimento illecito nel sistema putiniano.

Anche i giornalisti americani non furono risparmiati. Paul Klebnikov, redattore capo della versione russa di “Forbes” e autore di un libro critico nei confronti del capitalismo mafioso in Russia, fu ucciso in un apparente omicidio su commissione nel 2004. L’omicidio di Klebnikov, che avvenne dopo un articolo su “Forbes” sui più ricchi in Russia, rimane insoluto, nonostante le speculazioni su possibili mandanti.

In seguito, durante una visita a New York nel 2005, Putin incontrò la famiglia Klebnikov, assicurando che i giornalisti in Russia dovrebbero essere liberi di lavorare senza timore di violenze. Tuttavia, la sua offerta di rilasciare una dichiarazione pubblica in tal senso fu accolta con scetticismo e rimase senza seguito.

Nel 2005, Richard Behar diede vita al Progetto Klebnikov, con l’obiettivo di approfondire le indagini sull’omicidio di Paul Klebnikov e di proseguire il suo lavoro investigativo. Behar cercò l’aiuto di Anna Politkovskaja, una giornalista e attivista russa conosciuta per i suoi articoli critici sul regime di Putin pubblicati su “Novaja Gazeta”. Politkovskaja, nel suo libro “La Russia di Putin”, denunciava l’operato di Putin e dell’FSB nell’annientare le libertà civili per stabilire un regime autoritario di stampo sovietico. Lei riteneva che il KGB riservasse rispetto solo verso i potenti, mentre opprimeva i deboli, e avvertiva del rischio di un regresso verso l’oppressione informativa sovietica, dove solo internet rimaneva come baluardo di libertà informativa. Al di fuori di questo spazio, lavorare come giornalista indipendente significava esporsi a gravi rischi.

La repressione, tuttavia, non si limitava ai giornalisti. Putin imponeva una censura mediatica e un controllo rigido di internet, perseguiva gli attivisti per i diritti umani e ricorreva a tattiche punitive come l’internamento dei dissidenti in istituti psichiatrici, secondo quanto denunciato da Jurij Savenko del Chicago Tribune. Anche gli oligarchi che sfidavano Putin rischiavano conseguenze severe: Boris Berezovskij, ad esempio, fu costretto all’esilio dopo aver criticato Putin, e morì in circostanze misteriose nel 2013. Vladimir Gusinskij subì un destino simile, con le sue emittenti televisive prese d’assalto dallo stato e lui stesso costretto alla fuga.

Sotto la presidenza di Putin, il controllo sui media russi era così pervasivo che ogni contenuto su di lui tendeva a essere agiografico. Vladimir Milov, un tempo viceministro dell’energia sotto Putin e poi suo critico, paragonava il panorama mediatico russo a un monolite di canali paragonabili a Fox News.

La tensione tra Putin e gli oligarchi divenne evidente quando Michail Chodorkovskij, all’epoca l’uomo più ricco della Russia, fu arrestato nel 2003 dopo aver pubblicamente discusso di corruzione al Cremlino, dimostrando che nessun oligarca era al di sopra delle leggi di Putin.

Tra i critici di Putin, vi era l’ex agente dell’FSB Aleksandr Litvinenko, che fuggì in Occidente e pubblicò libri che collegavano Putin alla mafia russa e accusavano il regime di operazioni sotto falsa bandiera. Litvinenko, che ottenne asilo nel Regno Unito, fu una voce critica fino alla sua morte, avvelenato nel 2006. Le sue opere e quelle dei suoi collaboratori rimasero bandite in Russia, e l’avvocato Michail Trepaškin rivelò che chiunque fosse coinvolto con la pubblicazione di questi libri era minacciato di eliminazione.

Litvinenko aveva stretto una profonda amicizia con Anna Politkovskaja dopo essersi trasferito a Londra, legati da convinzioni simili e da una trasformazione personale: lui ex agente del KGB e lei figlia di un diplomatico russo. Litvinenko collaborava con l’MI6 e condivideva informazioni sulle connessioni tra Putin e il crimine organizzato con Mario Scaramella, legato alla Commissione Mitrokhin in Italia. Era particolarmente focalizzato su Semen Mohylevyč, descritto da sua moglie Marina come un pericoloso capo della criminalità organizzata, implicato in omicidi e contrabbando d’armi. Litvinenko sosteneva che Mohylevyč avesse stretti legami con Putin fin dagli anni ‘90 e che collaborasse con al-Qaida sotto la supervisione dell’FSB, motivo per cui le sue attività rimanevano occultate all’FBI.

Prima della sua morte nel 2005, Litvinenko registrò un messaggio dove affermava che Mohylevyč avesse venduto armi ad al-Qaida e sottolineava i suoi stretti rapporti con Putin. Era in contatto anche con Oleg Kalugin, ex generale del KGB residente negli USA, che lo aveva messo in guardia sulle sue accuse contro Putin, inclusa quella di pedofilia.

Nel 2006, Litvinenko criticò aspramente Putin per un video in cui il presidente russo baciava la pancia di un bambino, suggerendo che ciò nascondesse inclinazioni pedofile. Litvinenko andò fino a sostenere che Putin avesse distrutto prove compromettenti riguardanti abusi su minori.

Nonostante i rischi, Litvinenko mantenne una stretta collaborazione con Politkovskaja, cercando di sensibilizzarla sui pericoli delle sue inchieste sulla corruzione in Russia e suggerendole di usare la sua cittadinanza americana per proteggersi. Tuttavia, Politkovskaja scelse di rimanere in Russia per proseguire il suo lavoro.

A New York, Richard Behar conservava ricordi di Politkovskaja, inclusa la sua email su un biglietto da visita. Durante un incontro con lei, Behar espresse il desiderio di reclutare giornalisti investigativi in Russia per il Progetto Klebnikov. Politkovskaja, pur conscia delle sfide, si impegnò a supportare l’iniziativa, sebbene avesse avvertito che i giornalisti non corrotti erano pochi.

Il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaja fu tragicamente assassinata con un colpo di pistola nel proprio palazzo a Mosca, coincidentalmente nel giorno del compleanno di Putin. La notizia colpì profondamente Marina Litvinenko a Londra, che rivelò come suo marito Sasha fosse devastato dall’accaduto, temendo di essere la prossima vittima. Il 19 ottobre, durante un evento al Frontline Club a Londra, Sasha non esitò a puntare il dito contro Putin per l’assassinio di Politkovskaja.

Nonostante il pericolo, Litvinenko sembrava non prendere completamente sul serio le minacce alla sua sicurezza. Convinto della protezione offerta dalla sua recente cittadinanza britannica, riteneva improbabile essere attaccato in Occidente. Tuttavia, il 1° novembre 2006, dopo un incontro con Mario Scaramella che lo avvisò di un complotto russo per eliminare i coinvolti nella Commissione Mitrokhin, Litvinenko si recò al Millennium Hotel dove, bevendo tè con due ex agenti del KGB, Andrej Lugovoi e Dmitrij Kovtun, fu avvelenato con polonio radioattivo.

Le indagini rivelarono che il polonio usato era stato prodotto in Russia, portando Litvinenko a dichiarare dal letto d’ospedale di non avere dubbi sull’implicazione dei servizi segreti russi e di Putin nell’ordine del suo assassinio. La Commissione d’inchiesta guidata da Sir Robert Owen concluse che l’avvelenamento di Litvinenko fu probabilmente approvato dall’allora capo dell’FSB Nikolaj Patrušev e da Putin stesso, nonostante la Russia rifiutasse l’estradizione dei sospettati.

Il rapporto sollevò anche l’ipotesi che le rivelazioni di Litvinenko sulla Commissione Mitrokhin, inclusi i suoi legami con figure criminali come Mohylevyč e le accuse contro Putin, potessero essere stati fattori determinanti del suo assassinio. In particolare, le sue accuse riguardanti la protezione offerta da Putin a Mohylevyč potrebbero aver contribuito al tragico esito. Nonostante le numerose speculazioni, molte questioni rimangono aperte, ma è chiaro che la morte di Litvinenko, seguita da quella di Politkovskaja due mesi prima, riflette uno scenario russo in cui la lealtà al regime poteva arricchire i suoi sostenitori, mentre la ricerca della verità poteva risultare fatale.

 

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