I modi con cui le mosse di Putin sono giudicate dagli osservatori occidentali possono essere raggruppati in modo sintetico, e anche schematico, in due partiti sotto le cui ali si ritrovano le più diverse motivazioni. Ma la categoria principale che resta sempre valida nella sua essenzialità manichea è quella di amico/nemico. Nel primo gruppo si trovano a braccetto i sostenitori della realpolitik, chi insomma in nome degli interessi economici non ha nessuna intenzione nemmeno di criticare le azioni di Mosca, e i nemici più feroci del capitalismo, sia marxisti che ultra–conservatori, stanchi del liberalismo occidentale. Tra i nemici, ecco chi vede in Putin un semi-dittatore e nelle sue azioni – dall’annessione della Crimea alle minacce all’Ucraina e ai paesi baltici, alla politica energetica ricattatoria, alle azioni dei servizi russi contro i dissidenti all’estero – una minaccia concreta alla pace. E quindi richiede contromisure più efficaci.
Ma il modo più lineare per interpretare le scelte degli eredi dell’Unione Sovietica non è l’ideologia, né la retorica, anche affascinante, usata da Putin per esempio nella usuale intervista di fine anno. “La Russia deve cercare un antidoto efficace ai valori non tradizionali venuti dall’estero”, parole usate per stigmatizzare la deriva (vera) dell’occidente nelle questioni di genere.
La chiave di volta però per capire il Cremlino rimane la frase secca detta da Putin quando definì nel 2005 la fine dell’Urss “una tragedia”, “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. Identità russa imperiale e geopolitica, queste sono allora le due coordinate che definiscono la politica estera di Mosca a partire dagli zar, continuando con Stalin per arrivare a Putin. Ed ecco la rinascita della politica delle sfere di influenza, il considerare gli ex paesi sovietici diventati indipendenti una faccenda privata russa che non ammette intromissioni straniere.
Se questa analisi è corretta, che cosa devono fare i paesi europei e la stessa Unione Europea? Innanzitutto, vi sono due esigenze diverse, e spesso divergenti, che vanno entrambe tenute presenti e rispettate. Da una parte, gli interessi economici, in prevalenza energetici, per cui la Russia è un buon partner con cui intrattenere rapporti bilaterali, e dall’altra i timori per la propria sicurezza espressi dai paesi ex sovietici, dalla Polonia all’Ucraina, che vedono nella Nato e nella vicinanza agli Stati Uniti una garanzia. Insomma, economia contro sicurezza. Con il risultato di produrre una politica europea compromissoria, dalla direzione confusa e polifonica.
Il fatto è che l’idea trionfante, nei decenni a cavallo del XX secolo, della diffusione lineare del capitalismo e della democrazia come portato naturale della globalizzazione si è rivelata appunto un sogno, o meglio anch’essa un’ideologia. Perché sotto il tappeto nascondeva, e nemmeno in modo tanto coperto, il segno di un dominio sì impersonale, ma pur sempre all’insegna dell’unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti, vincitori della Guerra fredda.
La politica conseguente scelta dai paesi occidentali, anche perché spinti dai nuovi provenienti da Est, è stata quella di allargare l’ombrello delle proprie istituzioni, dall’Unione Europea alla Nato, come fossero la stessa cosa un’alleanza militare occidentale a comando americano e istituzioni politiche europee.
A quei tempi Mosca era debole, confusa, stordita, in una crisi totale che attraversava tutti gli ambiti della società e dello Stato. Appena si è svegliata, la reazione è stata rabbiosa e lucida. Bloccare l’emorragia, rioccupare per quanto possibile ogni spazio che le apparteneva, e aumentare la sua sfera di influenza ricercando il tanto agognato da sempre sbocco nel Mediterraneo, ed ecco gli interventi armati in Siria ed in Libia.
Le sue armi amministrate con astuzia, in quel complesso di azioni ibride, già sperimentato durante la Guerra fredda, che mischiano minacce e atti militari, ricatti economici, diplomazia, ed uso della violenza, ma sempre sotto soglia, senza correre il rischio dello scontro frontale militare con gli eserciti occidentali.
Ma allora era meglio, in tempi non sospetti, quando la nuova Russia era debole, se l’Unione Europea, Germania in testa, avesse ricercato una soluzione originale che garantisse l’indipendenza dei paesi ex sovietici senza allargare ad Est l’Alleanza Atlantica. D’altronde che cosa farebbe Washington se il Quebec si staccasse dal Canada e si alleasse con Mosca? Ancora non mi sembra che la dottrina Monroe sia stata messa in soffitta.
È necessario allora che l’Europa riveda la sua politica complessiva, e offra un nuovo disegno che consideri sia le esigenze diverse al proprio interno, sia quelle del potente vicino, senza dimenticarsi che oggi la partita è molto più complessa di trent’anni fa. Adesso la superpotenza americana non è più sola. Adesso sulla scena mondiale vi è un altro attore, la Cina. E il rischio è che l’indecisione europea costringa Mosca a volgere lo sguardo sempre più a oriente.
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