Parlano con Haftar in Libia, riorganizzano i mercenari della Wagner trasformandoli nell’Africa Corps, mettono stabilmente piede in Niger dopo averlo fatto in Mali e Burkina Faso. E sono presenti in diversi altri Paesi. I russi hanno intensificato la loro attività in Africa, a difesa di interessi economici il cui consolidamento serve anche a puntellare il rublo (grazie all’oro del Sudan) e ad aggirare le sanzioni internazionali, eluse con la complicità delle nazioni con le quali intrattengono rapporti.
Un’intraprendenza, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSI (Centro studi internazionali), che rischia di ostacolare la presenza europea nel continente, già messa a dura prova dal progressivo allontanamento della Francia, e di mettere i bastoni fra le ruote al piano Mattei, ideato dall’Italia per riallacciare relazioni più stette con i Paesi africani con l’intenzione di farlo diventare un progetto europeo. Un modo per evitare la concorrenza russa ci sarebbe, spiega Di Liddo: puntare sulle piccole e medie imprese e sulla loro capacità di penetrare nei mercati mondiali. Ma ci vogliono investimenti e sostegni alle aziende che vogliono andare all’estero.
Come mai l’attività dei russi in Africa sembra essersi intensificata in questo periodo?
C’è una linea di continuità della loro politica estera in Africa che non è stata intaccata in alcun modo dal conflitto in Ucraina, dal tentato golpe della Wagner e dalla morte del suo capo, Prigozhin. A testimonianza che quello che faceva Mosca nel continente non era frutto dell’iniziativa di un oligarca, ma di un sistema ben oliato, coordinato e che prevede una moltitudine di servizi e attori coinvolti. Il viceministro della Difesa, Yunus Bek Evkurov, incaricato dal ministro Shoigu e dal GRU, il servizio segreto militare, di prendere in mano l’eredità del Gruppo Wagner, ha immediatamente creato gli Africa Corps. Molti degli ex combattenti Wagner che non hanno voluto andare sul fronte ucraino hanno preferito rimanere in Africa. Il nome della nuova compagnia militare richiama le unità speciali dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale comandate da Rommel.
Eppure i russi spesso accusano gli ucraini, e non solo loro, di simpatie naziste.
La Russia ha al proprio interno un problema di neonazismo gigantesco, ben superiore a quello dell’Ucraina. Simpatie di questo tipo sono particolarmente radicate nel comparto delle forze armate, anche nelle compagnie private come era la Wagner, come continua a essere l’Africa Corps, i cui soldati sono sotto il controllo russo, ma non compaiono sotto la bandiera ufficiale perché limiterebbe il loro spettro di azione.
Come si collocano in questo contesto i frequenti incontri di Evkurov con Haftar? I russi vogliono accrescere la partnership con lui?
Sì, mirano alle risorse minerarie e petrolifere dell’Est della Libia, possibilmente scalzando i Paesi occidentali, Italia compresa, estendendo la loro influenza nella fascia saheliana e nordafricana e anche più a Sud, creando un cordone che unisce Repubblica Centrafricana, Niger, Burkina Faso, Mali e, appunto, Libia. L’obiettivo è sostituire l’influenza francese, che ormai è ai minimi termini, e quella europea più in generale.
I soldati di questa nuova forza che agirà in Africa a cosa servono, solo a curare gli interessi nelle miniere e negli impianti estrattivi?
Hanno il compito di proteggere gli autocrati dei Paesi amici, le miniere e supportare parzialmente le forze impegnate contro ribelli e terroristi. La loro ottica, però, è limitata: vogliono tenere libere le vie di comunicazione e le miniere. Svolgono la funzione che un tempo era degli eserciti coloniali.
In questo quadro come va letta l’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger dall’ECOWAS, la Comunità Economica dell’Africa Occidentale?
L’ECOWAS aveva sospeso questi tre Stati dalla membership perché non può accettare autocrazie, governi militari. Hanno capito che è inutile restare in un’organizzazione che per mesi ha cercato di dare vita a missioni per esautorare le loro giunte.
Quanto pesa sull’economia russa la presenza di affari e interessi in Africa? L’oro delle miniere del Sudan, ad esempio, sembra venga usato per ricostituire le riserve auree. È così?
L’estrazione aurifera registrata è una parte infinitesimale rispetto alla vendita contrabbandata. Una buona parte dell’oro viene acquistato dalla Russia: come riserva aurea ha una funzione di stabilizzazione dell’economia accumulando riserve strategiche. Il rublo è estremamente esposto alle fluttuazioni del mercato, con una riserva aurea importante si cerca di limitare questa debolezza. Quelle africane sono entrate importanti per la Russia, anche se non dobbiamo dimenticare che praticamente ha quasi tutto quello che le serve in casa. È un Paese ricco dal punto di vista minerario. Quello che va a prendere all’estero serve in un’ottica più ampia: impedire, ad esempio, ad altri Paesi di accedere a quelle risorse, procurando loro un danno economico e costringendoli ad acquistare quelle risorse da aziende centrafricane, libiche, che hanno potuto procedere alle estrazioni grazie a società russe. Mosca così aumenta il suo flusso di cassa.
Quindi l’Africa serve anche ad aggirare le sanzioni?
Se l’Occidente non vuole più il petrolio russo e decide di comprarlo ipoteticamente in Algeria, ma l’azienda africana a cui si rivolge ha rapporti con Lukoil, Transneft, Gazpromneft, che collaborano all’estrazione del greggio, una parte dei proventi va ai russi. È una delle chiavi di lettura per capire l’impegno della Russia in Africa.
Quanto la presenza dei russi potrà ostacolare lo sviluppo del piano Mattei?
L’effetto per noi è deleterio, continuiamo a perdere grip in Africa. Il modello russo di influenza non produce valore aggiunto per la popolazione e per il territorio. Non c’è uno sviluppo del Paese ma solo la messa in sicurezza delle miniere e accordi che riguardano questa attività. Le nazioni africane restano profondamente arretrate. E questo non fa altro che alimentare il flusso migratorio, che rappresenta una questione di criticità sociale per l’Europa e l’Italia, non per la Russia.
Come l’Italia può adattare il suo approccio con gli Stati africani per non subire la concorrenza dei russi?
Dal punto di vista economico la prima cosa da fare è la capacità di mobilitare il capitale privato. Se abbiamo competitor che investono nell’industria pesante e in quella mineraria, vuol dire che altri settori come la manifattura o l’agricoltura rimangono sostanzialmente scoperti. E l’Italia ha grande esperienza in questi comparti. Può proporre il modello della piccola e media impresa italiana con un forte radicamento locale: all’Africa manca e le farebbe dannatamente bene. Ed è nel nostro Dna. Per mobilitare il capitale privato lo Stato, tuttavia, deve fare un piccolo sforzo e aumentare il margine di garanzia per le aziende, perché l’imprenditore italiano è restio a esplorare mercati molto lontani, perché non li conosce.
Basta questo?
L’Europa deve mettere in gioco tutto il suo modello di cooperazione. Deve chiedersi qual è la sua scala di priorità e decidere se ingaggiare attori che sono andati al potere con modalità non democratiche oppure continuare per la strada della condizionalità, subordinando i rapporti con i governi locali al rispetto di certi principi, pur sapendo che a molti governi africani è indigesta.
(Paolo Rossetti)
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