È una notizia che ha fatto scalpore, suscitando l’interesse della carta stampata. Diversi giornalisti ne hanno parlato. Basti pensare agli articoli di Zafesova su La Stampa o di Sofri sul Foglio. È stata colta l’antropologia del gesto (Marcel Jousse) e la forza simbolica, volte ad attirare lo sguardo e a suscitare risonanza. L’icona della Santa Trinità di Andrej Rublëv è passata nelle mani della Chiesa ortodossa. Non sarà più oggetto di ammirazione nella Galleria Tret’jakov di proprietà statale, ma diverrà disponibile al culto nel Monastero della Trinità di San Sergio. Resterà prima per un anno nella Cattedrale del Redentore di Mosca.
Si tratta di un riconoscimento pubblico e forte dato alla Chiesa ortodossa, in questo momento storicamente gravissimo. Lo Stato russo si espropria di un bene perché la Chiesa lo possa esporre alla venerazione. Le critiche alla decisione adottata sono state numerose e argomentate. I rischi per l’opera, delicata nella sua straordinaria bellezza, sono indubbi. Tuttavia la scelta fatta non può non far pensare a un invito al popolo a guardare nella direzione della grande storia russa. E tale storia in tragico movimento si è espressa, nella gerarchia ortodossa, con l’appoggio alla “guerra metafisica” nei confronti dell’Ucraina.
C’è tuttavia nella storia, come ricorda Vico ai suoi lettori, un’eterogenesi dei fini in atto. C’è qualcosa di nascosto e di imprendibile che sfugge al volere di chi decide, sottolineando e generando ciò di cui abbiamo bisogno, nonostante noi stessi. L’icona della Trinità non sarà più protetta da una teca in un museo, ma sarà esposta. Una Presenza, dunque, reale e tangibile dentro una presenza storica, quella di un monastero che ha ospitato le sofferenze di tanti uomini, i quali hanno pregato e parlato col Mistero nei tempi duri della vita. Tale presenza nuova riapre a tutti, e massimamente alla Rus’, una memoria autentica ed originaria, più forte di ogni tentativo di propaganda o di strumentalizzazione.
Ci ricorda, in primis, Andrej Rublëv, il suo autore, immortalato da Tarkovskij. Nel celebre film del grande regista la violenza orrenda e la nudità pagana, spesso incensata dai neotradizionalisti russi, cedono il passo a un’immagine ultima: l’icona della Santa Trinità. È il giudizio della bellezza che salva il mondo e fa tremare davanti al destino. La bellezza ontologica delle tre Persone ricorda a tutti che “Tra l’essere e il niente, non c’è altro principio di esistenza che il principio trinitario. Esso è il fondamento incrollabile che unisce il personale e il comunitario e dà un senso ultimo a tutto… Perciò la cristianità è chiamata a riprodurre nella sua vita la realtà divina” (Pavel N. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Paoline, 1981). Il grande teologo afferma, infatti, che l’uomo è a immagine del Dio Unitrino, perciò “Tutti gli uomini sono chiamati a riunirsi intorno alla medesima e unica coppa” (Evdokimov, cit.).
Parole controcorrente, di fuoco, che fanno il pelo alla realtà prestabilita, per la loro forza. La comunione d’amore del Dio Unitrino mette in luce, infatti, l’insensatezza della guerra e la necessità della Pax Christi. L’uomo non è fatto per essere spaccato, diviso o fare a pezzi o essere fatto a pezzi. Ha bisogno urgente di soccorso per non essere inghiottito dal nulla e dalla morte interiore. Perciò, dimenticare che ogni uomo è fatto a immagine e somiglianza, e uccidere con “lo schema di Caino”, fa scomparire nel gelo. Florenskij sulla Trinità così scriveva: “Tra il Dio Uno e Trino cristiano e la morte per pazzia tertium non datur. Attenzione: non esagero; semmai non trovo parole abbastanza forti per esprimermi. Non c’è nemmeno lo spazio di un capello tra vita eterna nel seno della Trinità e la seconda morte che è eterna” (Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, San Paolo, 2010).
L’icona della Trinità, dunque, nella sua forza ci guarda senza più protezione, appellandoci. La sua bellezza indifesa mette in luce un’altra bellezza inerme, quella degli innocenti, vittime della violenza. Evdokimov sottolinea, infatti, l’ineffabile tristezza del Padre che, piegando la testa verso il Figlio sembra parlare, nell’atto di Agape estrema, all’Agnello immolato. Un grido muto dice dentro i cuori: “Siate uno, come io e il Padre siamo uno” (Evdokimov, Teologia della bellezza, cit.).
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