Nel 2014, anno dell’annessione della Crimea da parte della Russia, il Paese ha visto l’introduzione di leggi che penalizzano la diffusione di “informazioni false” riguardo alle azioni dell’Unione Sovietica durante la Seconda guerra mondiale. Queste leggi hanno anche reso illegale il tentativo di “riabilitare il nazismo” e di paragonare l’Unione Sovietica alla Germania nazista. Allo stesso tempo, è diventato un crimine negare il ruolo fondamentale svolto dai cittadini sovietici nella vittoria contro il fascismo. Questa legislazione è stata istituita in un momento in cui la tensione tra Russia e Ucraina stava crescendo.



Contemporaneamente, nel 2020, mentre il mondo era alle prese con la pandemia di Covid-19, la Russia ha indetto un referendum che ha portato a modifiche costituzionali. Queste modifiche, approvate dal 78% dei partecipanti, hanno attratto l’attenzione internazionale soprattutto per aver rimosso i limiti ai mandati presidenziali, permettendo a Putin di restare in carica fino al 2036. Nonostante l’ampia campagna pubblicitaria che ha preceduto il referendum, le questioni chiave come i limiti alla rielezione presidenziale sono state trascurate a favore di promesse di aumento del salario minimo e altri benefici sociali.



Le modifiche alla Costituzione, secondo Čarna Pistan, docente alla Columbia University, hanno rappresentato di fatto una “dichiarazione di guerra” che avrebbe inevitabilmente portato a un’escalation del conflitto in Ucraina, negando l’indipendenza di questo Paese. In particolare, l’articolo 67.1 della Costituzione russa fa riferimento a una “storia millenaria” che unifica Russia, Ucraina e Bielorussia sotto una sola nazione, basandosi su una reinterpretazione della storia della Rus’ di Kyiv, in modo da negare l’indipendenza delle nazioni coinvolte.

Similmente, l’articolo 69 svaluta l’importanza dell’integrità territoriale e del rispetto dei confini nazionali, sostenendo la difesa dei diritti dei cittadini russi all’estero e la preservazione di un’identità culturale russa universale. Questo articolo giustifica le azioni russe in Ucraina come legittime, presentando la guerra in Ucraina orientale come una missione di salvataggio contro un presunto genocidio dei russofoni.



La politica della memoria, codificata nella Costituzione, serve da arma per mantenere una versione ufficiale della storia, impedendo ogni revisione o interpretazione individuale. La legislazione penalizza chiunque denunci le violenze subite da parte dell’esercito russo, trasformando le vittime in criminali se queste non aderiscono alla narrazione ufficiale, sostenendo che parlare dell’azione militare russa in Ucraina come di una guerra può portare fino a 15 anni di carcere.

La Costituzione russa, dunque, non solo protegge le narrazioni che favoriscono il regime, ma rappresenta anche una continuità con l’eredità sovietica, includendo simbolismo, forze armate e strutture di potere, oltre a un’etica che ha impedito lo sviluppo di una società civile e di uno stato di diritto. Al contrario, in diversi Paesi dell’Europa orientale si è assistito a un rinnovamento della leadership politica e alla limitazione dell’accesso alle cariche pubbliche da parte di ex membri dei servizi di sicurezza, attraverso processi di “lustrazione” e riforme del sistema giudiziario. In Russia, però, un passato nel KGB è visto come un vantaggio, premiando coloro che hanno servito il vecchio regime con posizioni di comando nel nuovo Stato.

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