Il fenomeno del perdono può essere il criterio per valutare l’efficacia del nostro impegno in vista del futuro, quando affrontiamo la rielaborazione di un passato difficile.
Il tema della memoria – la rielaborazione dei traumi di un passato difficile – sta oggi valicando i confini dell’ambito specialistico per entrare nel mainstream. Ma una volta entrato nel mainstream, questo fenomeno si presenta al pubblico nei suoi aspetti accattivanti e comprensibili, mentre la sua faccia difficile e intricata finisce spesso nell’ombra, viene rimossa, profanata o banalizzata. Questo è quanto avviene in parte oggi col tema della memoria.
Forse il problema del perdono è un modo per riuscire a sostenere la rielaborazione del passato difficile nei suoi aspetti più pesanti e controversi. Il problema stesso del perdono viene di solito rimosso, o rifiutato, perché si presenta con due opposte manifestazioni: ora come apologia di un irenistico oblio, ora come costrutto ideologico e politico.
In realtà, il perdono è un approccio che permette di sciogliere un dilemma importante ed estremamente complesso, che non trova soluzione nell’ambito dei memory studies, né della transitional justice (la giustizia di transizione); il dilemma di come fare a mantenere aperte le ferite (perché il passato non si ripeta) e al tempo stesso riconciliarsi, fare in modo che le divisioni guariscano e si possa continuare a vivere insieme.
Il fenomeno del perdono può essere un grosso aiuto per rispondere a questa esigenza. Perdonare, infatti, significa deporre i «sentimenti ostili» (definizione per altro parziale, che andrebbe spiegata meglio) nei confronti dell’aggressore, senza tuttavia dimenticare il male subìto e senza sollevare l’aggressore stesso dalla responsabilità di ciò che ha commesso. Se guarderemo al passato secondo questi criteri, c’è la forte speranza di poterlo «disciplinare».
Oltretutto, il fenomeno del perdono può veramente essere usato come un importante criterio per verificare il livello qualitativo della memoria pubblica. In effetti, da un lato, se il lavoro sul passato non è finalizzato a spegnere i «sentimenti negativi», perde di vista il fine suo proprio, che è quello di ricostituire l’unità nel tessuto sociale lacerato dal male. Dall’altro lato, trasformare acriticamente il perdono in un programma politico e di conseguenza ideologizzarlo, ha come esito la profanazione di tutto il lavoro della memoria, un esito che produce risentimento nelle vittime e aggrava la lacerazione del tessuto sociale.
La conclusione forse più importante che se ne può trarre, soprattutto per un convegno come quello che si svolge in questi giorni, è che questo lavoro, pur applicandosi al piano sociale, deve mantenere una dimensione fortemente personalistica, non deve politicizzarsi né ideologizzarsi. Come per qualsiasi lavoro d’importanza, non bisogna mai smettere di monitorare attentamente le impostazioni.
L’esperienza sovietica (compresa quella dei dissidenti) di resistenza al totalitarismo può essere qui un grosso aiuto, come esperienza del vivere nello Stato senza al tempo stesso identificarsi con esso.
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