Una delle maggiori conseguenze inevitabili di ogni conflitto è l’odio verso l’altro. Anche verso l’altro che prima ti era amico. Soprattutto verso l’altro che consideravi amico e che ora ti sembra che ti abbia tradito. Anche perché spesso è vero che ti ha tradito.
Ma se consideriamo, prima che le conseguenze di un conflitto, le cause, spesso dobbiamo constatare che tra queste c’è la paura che ti suscita l’altro. La paura dell’altro ti induce a prendere delle precauzioni, magari ad armarti, a volte a cercare delle alleanze verso quello che potrebbe essere un comune nemico. Così nascono le alleanze difensive, anche tra parenti, che possono diventare, da un momento all’altro, offensive. E possono cominciare le vendette per dei torti che si ritiene di aver subito. È chiaro che così non si vince la paura. Anzi, spesso aumenta per episodi anche drammatici che all’inizio nessuno poteva prevedere.
Nel periodo degli anni di piombo, come mi è già capitato di ricordare, la paura dell’altro ha spesso provocato atti gravi di “violenza preventiva” per scoraggiare l’altro di cui si temevano le intenzioni. Qualcuno teneva una pistola in tasca per non fare la fine dell’amico. E quella pistola a volte finì con l’usarla provocando una tragedia anche a se stesso. Del resto anche oggi commercianti che si ritengono indifesi, e che spesso realmente lo sono, si armano e davanti allo stato di pericolo, difficile poi da valutare, e finiscono col mettersi nella condizione di usare quella violenza che avrebbero voluto evitare.
Passando al piano dei rapporti internazionali, comincia a vacillare la teoria che l’equilibrio del terrore, creato dal possesso delle armi nucleari, possa garantire la pace. Recentemente papa Francesco ha ribadito: “La deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca non possono essere la base di un’etica di fraternità e di pacifica coesistenza tra i popoli e gli Stati”. Purtroppo la questione, come dimostrano i fatti, non riguarda solo i principi dell’etica, ma anche la pratica della politica. Il pericolo della possibile guerra nucleare ha reso impossibile, almeno per ora, un intervento diretto della Nato e di altri Paesi amici a favore dell’Ucraina. Così Putin, protetto dal suo ombrello nucleare, ha pensato di poter agire indisturbato nel suo progetto di conquista.
Per fortuna, come dice un vecchio proverbio (uzbeko?) “Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”. E l’ombrello nucleare si è rivelato non molto dissimile dai coperchi del demonio. Di fatto, però, in pentola ci siamo finiti tutti, anche con le nostre nuove paure.
La paura non è in sé un male. Ci fa essere attenti in circostanze nelle quali la nostra vita e quella degli altri potrebbe essere in pericolo. Il fatto è che non sempre si è in grado di controllarla e, a volte, troppo spesso, la paura dell’altro crea disastri anche peggiori di quelli che si temono. In guerra la paura è parte integrante dell’esperienza umana. È inevitabile. Il problema però si allarga fino a diventare quasi insolubile quando si arriverebbe alla fine della guerra, ma al risentimento verso il nemico che ti ha fatto del male, spesso tremendo, si assomma la paura che questo male possa riprendere a fare da un momento all’altro.
Per questo, non per eliminare completamente il risentimento e la paura, nelle trattative di pace devono intervenire altri che il più possibile siano capaci di attenuare risentimento e paura. Altri che “ci sono già passati” o che siano disposti a condividere, almeno per un po’, la paura e quel clima di odio che può sopirsi solo poco a poco.
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