Caro direttore,
in un incontro pubblico svoltosi pochi giorni prima dell’invasione russa, alla mia domanda rivolta ad un intellettuale ucraino su quale fosse il sentimento del suo popolo mi veniva risposto: “Noi ucraini abbiamo nostalgia del futuro”.

La sua riposta mi ha fatto tornare con la mente a quella “nuova primavera dei popoli” seguita al crollo della civiltà degli imperi nel primo dopoguerra. Gli ucraini, all’indomani della caduta dell’impero zarista, insieme alle diverse nazionalità finalmente libere dall’impero austriaco come Cecoslovacchia e Ungheria, potevano guardare al futuro e diventare protagonisti del proprio destino. Per l’Ucraina fu una stagione brevissima, prima che l’Urss la fagocitasse in una nuova e più crudele sottomissione culminata nel genocidio dell’Holodomor (“sterminio per fame”) per volontà di Stalin; tanto breve quanto però, nel ricordo del nostro amico, indimenticata e carica di aspettative su un futuro libero e democratico. Nella coscienza degli ucraini questo futuro è in realtà già iniziato con la rivoluzione di EuroMaidan, quando le nuove generazioni hanno scelto la civiltà occidentale, hanno scelto l’Europa, hanno scelto il futuro.



Ma sin da subito ad intralciare questo cammino si è posto come ostacolo un’altra nostalgia, la nostalgia del passato. Essa si inserisce in un fenomeno più generale, che Bauman ha analizzato negli ultimi anni e a cui ha dato il nome di retrotopia, intitolando così l’ultimo suo libro pubblicato postumo.

Il grande sociologo polacco intuiva infatti come, da diverse parti, le recenti crisi economiche e sociali facevano riporre le speranze di miglioramento non più in un futuro sempre più incerto e palesemente inaffidabile, ma nel ricordo di un passato vero o presunto a cui guardare, appunto, con nostalgia.



In Russia questo dietrofront è stato dirompente. Le fragilità e le sperequazioni proprie del processo di democratizzazione dell’ex impero sovietico acuivano le frustrazioni e l’umiliazione della sconfitta subita nella guerra fredda, mettendo definitivamente in crisi l’incerta appartenenza all’Occidente. Ciò risvegliava infatti la nostalgia di un passato mitizzato e apprezzato per la sua grandezza, per la sua stabilità, per la sua sicurezza, proiettando la Russia verso il recupero della sua tradizione ortodossa e slava come civiltà a sé stante. In questo consiste il disegno di Putin, perseguito con convinzione e determinazione. Esso può sintetizzarsi nel rifiuto della civiltà occidentale e nella ricostruzione della Terza Roma, anche se molto più materializzata perché posta a salvaguardia dell’etnia slava, senza il respiro evangelico del cristianesimo. Il suo farneticante discorso allo Stadio Luzhniki di Mosca, nel quale cerca nelle parole di Cristo una giustificazione alla sua barbara invasione, richiama le guerre di religione!



In questo modo, Putin ha resuscitato una serie di intellettuali slavofili che negli anni Venti del secolo scorso furono artefici dell’euroasianesimo, finendo per essere perseguitati dai bolscevichi. Costoro si convinsero del ruolo speciale della civiltà russa nella storia dell’umanità, in virtù di qualità spirituali garantite dalla chiesa ortodossa e grazie all’incontro di elementi europei e asiatici.

Il più importante tra essi, lo scrittore Ivan Ilyn, tra i più citati da Putin, considerava la libertà religiosa e la democratizzazione occidentale come mezzi per distruggere la civiltà russa, i suoi valori e la sua unità che comprendeva anche una terra “naturalmente” e “storicamente” russa come l’Ucraina. Parole riecheggiate da Putin all’inizio dell’invasione e smentite dalla stessa resistenza eroica degli ucraini, testimonianza ineludibile del fatto che una nazione non è definita innanzitutto dalle sue caratteristiche naturali quali la lingua, il territorio e l’etnia. L’essenziale di un popolo è la sua coscienza, la sua volontà di essere e manifestarsi come nazione. Come diceva Renan, “la nazione è il plebiscito di tutti i giorni”, e oggi l’Ucraina sta decidendo ogni giorno di essere nazione, fino al sangue.

Alla nostalgia del futuro ucraina si oppone dunque la nostalgia del passato russa, in uno scontro di civiltà che passa lungo la faglia che divide la civiltà russa da quella europea, a cui l’Ucraina ha scelto di aderire. A Kiev non è attaccata solo l’Ucraina ma l’Europa nella sua essenza, nei suoi valori costitutivi, in quanto civiltà europea, mettendone a rischio la sua stessa esistenza. In questo scontro essa è costretta a ripensarsi: ogni civiltà si costituisce infatti nella sua peculiarità come contrapposta ad altre, ed è per questo che per l’Europa la guerra dichiarata da Putin ai suoi valori rappresenta l’occasione per una presa di coscienza nuova di sé.

L’Europa si era illusa che la fine della guerra fredda avrebbe proiettato l’umanità nella pace mondiale: figli del più lungo periodo di pace e di benessere, gli europei considerarono la caduta del muro di Berlino come l’avvento dell’unificazione del genere umano in un’unica civiltà cosmopolita, uscendo dalla storia come conosciuta nel corso dei secoli. La guerra di Putin, da questo punto di vista, è un brusco risveglio, e i risvegli sono sempre amari. L’invasione in nome dell’unità della civiltà russa la costringe ad uscire dal letargo e a ragionare in termini non più universalistici ma peculiari, in quanto civiltà europea con una sua propria identità distinta e oggi minacciata.

Ed è proprio nel momento in cui è in gioco il suo destino che essa ha la necessità di riprendere in mano il suo processo di integrazione e costruirsi una propria autonomia strategica a tutti i livelli: industriale, energetico, militare. Si tratta di comprendere che, in un mondo non più armonico, un’Europa debole politicamente e senza difesa comune rimane una potenza economica incapace di avere una sua identità sul piano geopolitico e quindi di incidere nel contesto mondiale con la forza di suoi valori, rimanendo esposta all’aggressività e alla minaccia di potenze estranee ed ostili.

La questione è inaggirabile e riguarda l’intero Occidente. Dall’inizio del secolo l’espansione dei valori occidentali non solo si è arrestata ma è in ritirata, come ha dimostrato l’estate scorsa la precipitosa fuga americana dall’Afghanistan e il ritorno dei talebani. Il tentativo di realizzare una civiltà universale non è riuscito e al suo posto è subentrato lentamente ma inesorabilmente un mondo multipolare formato da civiltà diverse e rivali, che S. Huntington negli anni Novanta del secolo scorso aveva previsto. La convergenza strategica della Cina con la Russia, basata non più su una comune ideologia, come nella guerra fredda, ma sul rifiuto della cultura occidentale, rivela chiaramente un nuovo ordine mondiale che richiede a noi occidentali non solo nuovi paradigmi interpretativi ma anche una rinnovata strategia di sicurezza comune e soprattutto un ritorno dello spirito.

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