Davanti a ciò che sta succedendo in Ucraina, davanti a certe immagini, sentendo ripetere nomi, denominazioni di città, che per tanto tempo abbiamo associato a certi ricordi del tempo della nostra giovinezza, quando c’era l’Urss, non può non sorgere la domanda: che cosa c’entra l’Urss con la guerra in Ucraina?



Senza pretendere di dare una risposta esauriente, mi pare giusto fare alcune considerazioni.

Nel maggio del 1991 Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell’Urss, fondatore della “perestroika”, acclamato in Occidente come una specie di “uomo della provvidenza”, indisse in tutta l’Unione Sovietica un grande referendum con una semplice domanda proposta a tutte le repubbliche: volete o non volete appartenere ancora all’Urss?



Praticamente nessuno, men che meno in Occidente, contestò la sostanziale regolarità del referendum.

A parte i tre Paesi baltici, che avevano già deciso per l’indipendenza, in tutte le altre repubbliche dell’Urss si affermò una schiacciante maggioranza di consensi al fatto di continuare a far parte dell’Unione Sovietica.

Nella Repubblica Russa, di cui era capo Eltsin, si espresse in questo senso più dell’80% degli elettori; la percentuale minore dei consensi venne dall’Ucraina, che, comunque, votò per rimanere nell’Urss con una percentuale del 71,38%. Nelle repubbliche centro-asiatiche ci fu un autentico plebiscito a favore dell’Urss, più del 90%.



Del resto, ad esempio, il presidente della repubblica del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, ora indicato dalla nostra stampa come un terribile dittatore, era allora considerato come uno dei massimi sostenitori di Gorbaciov, fino al punto che alcuni lo ritenevano un suo delfino. E così, divenuto poi, alla fine del 1991, primo presidente della nuova Repubblica indipendente del Kazakistan, ricevette dal presidente Scalfaro (ero presente alla cerimonia) la massima onorificenza del nostro paese, diventando Grande Ufficiale della Repubblica Italiana.

Certo, poi, nell’agosto 1991 avvenne il misterioso tentativo di colpo di Stato di Mosca, su cui resta ancora molto da chiarire, sia sulle cause che sugli effetti. Di fatto sappiamo che Gorbaciov fu esautorato, che Eltsin, presidente della Repubblica Russa, divenne il nuovo leader di un paese “indipendente dall’Urss” e che in breve tempo le altre repubbliche si trovarono a godere di un’indipendenza che, per la verità, non avevano scelto; tant’è vero che non ci fu nessuna sommossa di piazza per ottenere questa indipendenza.

Gorbaciov firmò l’atto conclusivo, la fine dell’Urss, il 26 dicembre ad Almaty, in Kazakistan. Ufficialmente era finita l’Unione Sovietica, è vero, con le macerie sociali ed economiche che aveva lasciato, ma non si era ancora estinto l’uomo sovietico che si era formato in settant’anni di regime di “socialismo reale” (il comunismo, per ora, rimane di fatto una semplice aspirazione, forse utopistica).

Così oggi la situazione dei Paesi dell’ex Unione Sovietica è paradossale. Praticamente dappertutto, ad esempio, si parla principalmente la lingua russa che, di fatto, si era affermata non solo come lingua veicolare, ma anche come lingua del potere dovunque, a scapito delle lingue e delle culture locali.

D’altra parte, in questi nuovi Stati, quasi dappertutto, ci sono sistemi socio-politici pressoché identici; proprietà privata, libero mercato e multipartitismo. In questo senso Ucraina e Russia hanno un identico sistema economico-sociale e una classe politica che è figlia ancora di quel mondo sovietico in cui sono stati educati i loro padri e padrini. Ciò, naturalmente, fa apparire sempre più urgente la questione di una formazione, forse sarebbe meglio dire, di un’educazione di uomini politici radicalmente “diversi”.

Una cosa è certa: questa nuova classe politica non può avere come modello quello di una classe politica occidentale a sua volta in grave crisi e incapace spesso di mettersi in discussione, come più volte ha osservato Papa Francesco. Risulta, ad esempio, ampiamente irrisolto il problema di un’economia di libero mercato che favorisce l’accumularsi di immensi capitali controllati da poche persone o da poche “organizzazioni impersonali”.

C’è da osservare, inoltre, che normalmente il giovane dell’Est Europa è affascinato dai miti della società dei consumi, ma, a differenza della maggior parte dei nostri giovani, come dimostra la guerra in Ucraina, è ancora legato a certi aspetti di appartenenza nazionale, se non nazionalista. Molti giovani ucraini, anche se non tutti, sono disposti a combattere e anche a morire per Kiev, mentre mi sembrerebbe difficile trovare tanti nostri giovani disposti a morire per Parigi, Berlino o Roma (anche se nell’inno nazionale che si canta per lo più nello sport si dice: “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò…”).

In conclusione, secondo me, l’antagonismo, da cui deriva la guerra tra Ucraina e Russia non è tra due sistemi, ma tra due schieramenti, dove, certamente, quello occidentale sembrerebbe offrire più prospettive di evoluzione, a patto, però, che a questa evoluzione sia veramente disposto.

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