È noto che dopo la Seconda guerra mondiale fu proibito per legge ai tedeschi di cantare le prime strofe del loro inno nazionale (che per altro era stato scritto molto tempo prima dell’avvento del nazismo) che cominciavano con l’espressione “Deutchland, Deutchland uber alles”. Poco male, in fondo, anche perché nella parte dell’inno censurata si diceva che i confini della Germania dovevano arrivare fino al fiume Adige, e non tutti i veneti sarebbero stati d’accordo.



Anche al dissolvimento dell’Unione Sovietica, Boris Eltsin, primo presidente della Federazione Russa, decise di abolire il vecchio inno sovietico. Di abolirlo in toto, parole e musica. Ma il popolo russo si ribellò: passi per le parole, ma la vecchia musica, che aveva accompagnato tanti trionfi alle Olimpiadi, come si poteva dimenticare?



E così la musica è stata, come si dice da quelle parti, riabilitata. Quanto alle parole, be’, si sa, quasi tutti gli inni nazionali, tranne quello spagnolo (per quieto vivere non ha parole), sono un po’ retorici, ma certo le parole del nuovo inno russo non hanno nulla da invidiare, quanto ad orgoglio nazionale, a quello precedente.

Se il vecchio inno, sovietico, riconosceva alla Russia la missione di aver “saldato per sempre un’unione indivisibile di repubbliche libere”, il nuovo inno parla della Russia come “il nostro paese sacro”. Questo paese sacro sarebbe protetto da Dio, e non più guidato dal Partito, perché, dopotutto, anche con Dio, dopo tanti anni, è meglio fare la pace.



Questa nostra patria libera si presenta come “unione eterna di popoli fratelli” senza, per la verità, specificare di quali fratelli si parla. Di certo non è chiaro se si allude a popoli come quelli di Georgia, Ucraina e Moldavia.

Se la storia ha dimostrato nei fatti che l’Unione Sovietica non ha saldato proprio per sempre quell’unione indivisibile di repubbliche sovietiche, ora ci si chiede a chi spetti l’onore di essere considerato popolo fratello della nuova Grande Russia.

Già, il nazionalismo, il sovranismo: nomi diversi che da una parte esprimono il desiderio di non essere inglobati in un meccanismo estraneo alla nostra tradizione, ma, d’altra parte, almeno in qualcuno, nascondono il proposito che una tradizione diventi quella di molti, se non di tutti.

In questo senso è perlomeno singolare che in questi giorni molti commentatori, parlando degli ucraini filo-russi, li chiamino russofoni. In verità, praticamente quasi tutti gli abitanti dell’ex-Urss sono russofoni; in particolare in Ucraina le famiglie, normalmente, parlano tra loro in russo. Questo è il frutto dello strapotere della Russia all’interno dell’Urss (vedi inno).

Del resto, nel mondo occidentale, e in gran parte anche di quello orientale, Russia compresa, la maggior parte dei giovani parlano, più o meno, l’inglese. E in questo senso tutti ci potremmo dire anglofoni. Fino al punto che, ad esempio, nella lingua italiana oggi non è considerato accettabile dire “negro” mentre nella nostra lingua, a differenza degli Stati Uniti, l’espressione non è mai stata usata come dispregiativo.

Mi colpiva, qualche tempo fa, rivedere su Rai Storia un vecchio telegiornale dove si parlava della marcia per l’emancipazione guidata da Martin Luther King e si parlava tranquillamente dell’iniziativa dei “negri”.

Personalmente credo, tra l’altro, che sia più offensiva l’espressione “di colore”, politicamente corretta, che pone le domande: e noi, e tutti gli altri di che colore siamo?

Così, pur non negando l’utilità di una lingua veicolare, qualunque essa sia, mi sembra importante salvare la lingua del popolo, anche per una questione di giustizia sociale nei confronti di chi non può accedere a certi livelli di istruzione.

D’altra parte, in molti paesi dell’ex Unione Sovietica, la riscoperta e la valorizzazione della lingua originale del popolo prelude all’apertura a una scoperta dell’identità nazionale, di cui la lingua – come diceva Olzhas Suleimenov, primo ambasciatore del Kazakhstan in Italia – è il primo museo.

Nel caso del rapporto tra Russia e Ucraina ci troviamo in una situazione particolare. Al di là delle differenze degli idiomi, e in parte anche dell’alfabeto, c’è nella cultura dei due paesi una grande storia in comune.

Anche a prescindere della considerazione dell’Ucraina come “loro” periferia, come sostengono alcuni russi, non si può dimenticare quanto unisce questi popoli e, proprio per questo, paradossalmente, richiede un reciproco rispetto come dovrebbe essere tra due veri amici per i quali è importante l’altro, così come è e non come si vorrebbe che fosse.

Infine non è retorica, ma pura realtà che russi e ucraini hanno un’antica, comune, grande tradizione cristiana che li ha uniti spesso anche nella difesa di questa identità: si pensi alle lotte con l’Impero Ottomano e la resistenza contro l’invasione nazista, durante la quale si può dire che gli episodi di collaborazionismo sono stati minoritari, e spesso suscitati non dall’amore per i tedeschi, ma da una comprensibile reazione alla dittatura stalinista.