I hope the Russians love their children too”, spero che anche i russi amino i loro figli, cantava l’ex Police, Sting, nel lontano 1985, in Russians, al culmine della Guerra fredda tra occidente e Unione sovietica. Una guerra che non sembrava più così tanto fredda, sembrava piuttosto che fossimo sull’orlo del precipizio, che il lancio dei missili nucleari fosse solo questione di tempo. Tanto si erano deteriorati i rapporti fra Stati Uniti e Russia  (“Mister Krushchev said, “We will bury you”; Mister Reagan says, “We will protect you”, cantava ancora Sting) , dopo anni di deterrenza, la corsa agli armamenti che doveva tenere ognuna delle due parti ben lontana dal premere il fatidico bottone.



Oggi che gli stessi venti di guerra sono tornati a fischiare tra Stati Uniti, una Europa come allora inesistente e incapace di prendere una posizione autonoma, e la Russia, viene da chiedersi: ma allora non erano i comunisti la minaccia come ci avevano obbligati a credere per decenni. Erano i russi e basta. I russi e gli americani, impegnati oggi come quarant’anni fa in un gioco tra super potenze, perché è questo che sono, sulla testa del resto del mondo. Una con la faccia dei buoni che così buona non è davvero, gli altri i cattivi. Insomma, tra Bush Jr. e il suo compagno di merende Colin Powell che si inventarono “le armi di distruzione di massa” per invadere l’Iraq e Putin che riscrive la storia dicendo che l’Ucraina “fu una invenzione della Russia e che non è mai esistita come nazione”, chi manipola la realtà per i propri fini di super potere? Usando i carri armati, ovviamente.



Nel lontano 1963, all’apice di un’altra crisi mondiale, quella dei missili nucleari russi dispiegati a Cuba cantava Bob Dylan: “Ho imparato a odiare i russi per tutta la mia vita se arriva un’altra guerra sono loro che dobbiamo combattere odiarli e temerli correre e nascondersi e accettare tutto con coraggio con Dio dalla mia parte”. Già, perché gli americani hanno sempre Dio dalla loro parte.

Saltando avanti di vent’anni, di nuovo negli anni 80, Billy Joel si tirava fuori annunciando in We didn’t start the fire una verità inconfutabile: il “fuoco”, la guerra, ci sono sempre stati, da quando il mondo ha cominciato a girare, e quando noi ce ne saremo andati ci sarà ancora quel fuoco maledetto: “Controllo delle nascite, Ho Chi Minh, Richard Nixon di nuovo, Woodstock, Watergate, punk rock, Reagan, Palestina, terrore sui voli aerei,Ayatollah in Iran, russi in Afghanistan, Non abbiamo appiccato noi il fuoco, bruciava sempre, da quando il mondo stava girando, non abbiamo appiccato il fuoco ma quando saremo andati continuerà a bruciare”.



E i tedeschi, divisi in due, tra occidente e comunismo, quelli sul cui territorio era dispiegato il maggior numero di missili nucleari, cosa dicevano? Ci pensò una band di ragazzini a dar loro voce, i Nena. 99 Luftballoons era impossibile non ascoltarla negli anni 8o, in rotazione continua su Mtv,  ma diversamente dall’aspetto festoso che sembrava comunicare il video, aveva ben altro significato. Ispirata al concerto dei Rolling Stones tenutosi a Berlino ovest in cui furono lanciati in cielo centinaia di palloncini come simbolo di pace e nella speranza che anche i cittadini della parte est potessero vederli, il chitarrista del gruppo, Carlo Karges, presente durante il concerto, immaginò come avrebbero interpretato dall’altra parte del Muro un messaggio del genere. Visto il clima di Guerra Fredda, i palloncini scatenano l’allarme di un attacco alieno e lo scoppio di una stupidissima e paranoica guerra: “Novantanove strada decisionale / Novantanove ministri si incontrano / Preoccuparsi, preoccuparsi, affrettarsi / Chiamare le truppe in fretta / Ecco, ragazzi, questa è la guerra / Il presidente è in linea /Mentre passano novantanove palloncini rossi”.

Un gruppo americano dance ironicamente ma efficacemente denominatosi CCCP, non il nostro omonimo italiano, ne cantò in American soviets del 1987 (americani sovietici, senza distinzione), immaginando una telefonata tra Ronald Reagan e Gorbachov nella quale i due giocano a scacchi: Entrambi inviano le loro armi nello spazio, sembrano soppiantare i problemi della gente sembrano soppiantare, la corsa agli armamenti è ciò che non possono negoziare, perché non si tratta di scacchi su ciò di cui discutono? Cosa è andato storto nel Golfo dell’Iran? Perché i russi hanno invaso l’Afghanistan? Perché non risparmiare i soldi per gli armamenti Ed essere compagni di scacchi nella sfida? Reagan e Gorbaciov giocano a scacchi in TV, il senato sta dando una festa sul mare, la guerra nucleare sarà per sempre bandita, sono solo i loro re che devono difendere”.

Potremmo andare avanti ancora a lungo, ma ci fermiamo con un messaggio di speranza, dopo tutto questo catastrofismo. Ci pensa la deliziosa cantante inglese Kate Bush con la sua Breathing. Il soggetto è un feto non ancora nato a cui la madre racconta del mondo che lo circonda. Quel mondo non esiste più, uno speaker anonimo e distante annuncia che c’è stata una guerra nucleare. Rimane solamente aria tossica, nicotina, radiazioni, chip di plutonio invadono i polmoni della madre, che, nonostante tutto, cerca di proteggere e di amare la vita che cresce dentro di lei. L’amore materno  sopravvive all’inferno, è in grado di creare nonostante l’orrore.