L’ultimo report sul mercato del lavoro dell’Ocse mette l’Italia al terzultimo posto, tra i 38 Paesi dell’organizzazione, e all’ultimo posto nell’Eurozona per crescita dei salari reali dall’ultimo trimestre del 2019 al primo del 2024. I salari reali in Italia sono scesi del 6,9% dal trimestre precedente l’arrivo del Covid contro una media dell’organizzazione di una crescita dell’1,5%; è andata molto meglio degli italiani ai francesi, salari reali cresciuti dello 0,1%, ai tedeschi, con un calo di appena il 2%, e anche agli spagnoli, i cui salari reali sono scesi solo del 2,5%. I salari reali sono cresciuti, tra gli altri, in Portogallo (+5,5%) e nel Regno Unito (+3,1%).
Il report dell’Ocse ha il merito di rappresentare un fenomeno che negli ultimi trimestri è emerso dai dati di altre istituzioni; dai dati Eurostat, per esempio, spesso oggetto di report e presentazioni della Bce e dei membri del suo board, e anche dai dati “empirici” sulle offerte di lavoro.
Il calo dei salari reali in Italia, senza paragoni tra Paesi simili, spiega l’urgenza con cui Roma chiede tagli alla Bce. Vale sempre la pena ricordare che più si scende nelle fasce di reddito, più la perdita di potere d’acquisto peggiora. I tagli della Bce diventano l’unico modo con cui provare a ottenere un effetto di breve periodo positivo, per esempio, sui costi del mutuo. I cittadini degli altri Paesi europei, a fronte di salari saliti o scesi molto di meno, possono assorbire costi maggiori molto meglio e quindi sono in grado di reggere tassi più alti.
La deflazione salariale in Italia degli ultimi quattro anni è solo l’ultima puntata di una storia molto più lunga che è indissolubilmente legata all’euro. Si devono sottolineare almeno due aspetti. Il primo è che la deflazione in Italia aiuta l’Europa e la Bce a giustificare tagli dei tassi. Se l’Italia avesse avuto salari reali in linea con la media europea, l’inflazione dell’Unione sarebbe stata più alta e i tagli non sarebbero arrivati; l’euro sarebbe anche stato più forte. La deflazione salariale italiana fa comodo all’Europa nella misura in cui contribuisce a creare le condizioni o per un taglio dei tassi o per la fine della loro salita. Ricordiamo che i margini di profitto di un numero ampissimo di settori negli ultimi due anni sono esplosi e che i calcoli con cui le banche centrali dividono il rialzo dei prezzi tra “offerta” e “domanda” contengono elementi di arbitrarietà decisivi (ce ne viene in mente uno in cui tutto quello che non era sicuramente domanda veniva arbitrariamente allocato all’offerta). Cosa abbia causato l’inflazione negli ultimi due anni si evince chiaramente da quello che si è visto sui margini di profitto, sui consumi, sui prezzi delle case in un contesto di esplosione dei deficit e dei bilanci delle banche centrali.
La seconda questione è che l’euro, anche per la seconda generazione che ci è cresciuta, rimane privo di meccanismi di aggiustamento interno che non includano la repressione della domanda interna. Dentro l’euro convivono Paesi in cui negli ultimi quattro anni i salari reali sono saliti di oltre il 5% e altri in cui sono scesi del 7%; per tutti e due, in questo caso rispettivamente Portogallo e Italia, vale la stessa politica monetaria e la stessa valuta. È inevitabile che almeno uno di questi due Paesi si senta “costretto” in una politica monetaria molto scomoda. Queste considerazioni si devono fare non per sostenere “l’uscita dall’euro”, ma per mettere a fuoco la questione.
C’è una politica monetaria identica per Stati con inflazioni profondamente diverse e questo non può funzionare. Gli squilibri sono strutturali e si sommano di anno in anno. Poi c’è l’ultima questione che è di stretta attualità. Se l’unico possibile riequilibrio passa dalla deflazione e dalla repressione della domanda interna si deve almeno contemplare la possibilità che qualcuno, messo alle strette, possa non essere d’accordo. Questo sembra essere il caso della Francia che sembra il prossimo candidato a un riequilibrio e in cui, guarda caso, esplodono gli “estremismi” di destra e di sinistra. Più che di una “melonizzazione” della sua politica, come si invoca sui principali media finanziari da settimane, la Francia avrebbe bisogno di una “italianizzazione”, ma del successo di questa operazione è lecito dubitare.
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