La questione salariale italiana – per quanto nota da qualche decennio negli ambienti del lavoro e degli studi economici – è emersa con forza a livello di opinione pubblica quando, circa tre mesi fa, l’Ocse ha diffuso una rilevazione comparata dalla quale risulta che, negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese in cui i salari annuali medi sono diminuiti.
Naturalmente, l’attuale spirale inflattiva contribuisce a rendere il problema molto sentito. Ed è sicuramente questo quadro ad aver indotto la Commissione europea a trasmettere agli Stati membri la direttiva sul salario minimo adeguato (che non significa legale) di cui, su queste pagine, abbiamo più volte parlato.
Il tema è tornato in queste ore alla ribalta: il consueto rapporto “Global Attractiveness Index. Il termometro dell’attrattività di un paese” del The European House Ambrosetti (riferito all’anno 2019) rileva che la remunerazione del lavoro dipendente in Italia è inferiore a quella di Spagna, Francia e Germania. La quota parte dei costi di produzione delle imprese italiane destinata ai salari e al lavoro dipendente è del 18,6%, valore inferiore del 6,3% rispetto alle imprese spagnole, del 7,1% alle imprese tedesche e del 8,2% rispetto a quelle francesi.
Tutto questo, in una situazione di profitti in crescita: in Italia superiori dello 0,5% alla media europea, dell’1,1% rispetto alla Spagna, del 3,2% rispetto alla Germania e del 7,8% rispetto alla Francia.
Sono sufficienti questi numeri per capire, come abbiamo già sottolineato in precedenza, che quello della produttività – agitato in particolare dagli industriali – è un falso alibi. In Italia c’è un serio problema legato alla distribuzione della ricchezza. Al di là del fatto che si tratta di numeri mediani e che i numeri vanno sempre analizzati in profondità, ci permettiamo in questa sede di richiamare due questioni che hanno a che fare con ciò di cui stiamo parlando.
1) C’è da anni chi spinge per uno sviluppo della contrattazione collettiva in senso decentrato, che non significa soltanto aziendale ma, anche, territoriale. Perché è importante che la contrattazione si sviluppi in questo senso? Perché il 95% delle nostre imprese hanno meno di 10 addetti/e (Istat). Qui non vi è contrattazione aziendale, pratica tipica dell’impresa medio-grande (il restante 5% del nostro sistema produttivo). Nella microimpresa, la distribuzione della ricchezza prodotta è quindi lasciata alla volontà unilaterale dell’imprenditore e all’abilità individuale del lavoratore di far valere le proprie capacità e i propri diritti.
La contrattazione territoriale potrebbe invece individuare dei criteri di distribuzione della ricchezza e favorire, anche, un avvicinamento di lavoratori e imprese alle loro rappresentanze, per altro in epoca di crisi.
Se ne parla da molto tempo – vi è addirittura un disegno di legge a firma del già segretario generale della Cgil, Antonio Pizzinato, che giace in Parlamento da circa 25 anni –, ma non si è mai fatto nulla per incentivare lo sviluppo territoriale della contrattazione, sul quale anzi permangono resistenze tipiche della burocrazia sindacale. L’attuazione del Pnrr, peraltro, potrebbe trovarne grande giovamento.
2) In Italia vi sono livelli abnormi di lavoro nero. L’Istat ci ricorda ogni mese i numeri della disoccupazione, non con la stessa dovizia e costanza ci riporta sul problema dell’economia sommersa: nel nostro Paese circa 4 milioni di lavoratori/lavoratrici sono occupati in modo irregolare. Parliamo di circa il 13% del nostro Pil, per un valore di oltre 210 miliardi di euro. Una delle ragioni per cui perdiamo i nostri giovani migliori è che spesso viene proposto loro di lavorare in nero. E nemmeno per brevi periodi.
Non è difficile comprendere che, se facessimo emergere questi 210 miliardi di euro, avremmo la fotografia di un Paese diverso, ci troveremmo in presenza di altri livelli di occupazione/disoccupazione e, anche, di parametri diversi di distribuzione della ricchezza: aumenterebbe, naturalmente, la quota parte dei costi di produzione delle imprese italiane destinata ai salari, riducendone la distanza da Spagna, Germania e Francia; ma, probabilmente, risulterebbero ancora più critiche le retribuzioni di coloro che appartengono ai livelli più bassi e ai profili in ingresso.
Adeguamento dei salari, riforma del sistema contrattuale e contrasto al lavoro sommerso potrebbero essere tre punti importanti di un programma per il lavoro della nuova legislatura che inizierà dopo le elezioni del 25 settembre.
Certo, non si possono fare interventi efficaci in questo senso senza coinvolgere le parti sociali. Inoltre, l’adeguamento dei salari e il contrasto al lavoro sommerso potrebbero trarre giovamento da un taglio del cuneo fiscale che sembra sempre più necessario anche per restituire forza al potere d’acquisto dentro la spirale inflattiva.
Un’economia avanzata, come quella italiana, non può continuare ad avere quello che Marco Biagi chiamava il “peggior mercato del lavoro in Europa”.
Twitter: @sabella_oikos
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