Secondo gli ultimi dati sul mercato del lavoro in Europa raccolti da “Indeed Hiring Lab”, la crescita dei salari in Italia a maggio ha “rallentato drammaticamente” fermandosi all’1,6% contro con una media europea sensibilmente più alta; Francia, Spagna e Olanda a maggio si attestavano ancora a circa il 5%, mentre la Germania era oltre il 6%.



La divaricazione tra la crescita dei salari all’interno dell’Europa oggi è diversa da quanto visto nel ciclo di sostanziale assenza di inflazione chiuso nel 2020. In quella fase si trattava “solo” di una perdita di potere d’acquisto relativa a quella degli altri, mentre oggi, con un’inflazione che nel 2022 ha sfiorato la doppia cifra, il risultato è una perdita di potere d’acquisto molto più cattiva che costringe chi non riesce ad adeguare il proprio salario a consumare di meno o peggio o entrambi.



È un problema economico che diventa immediatamente sociale e politico, perché la parafrasi di questi numeri è che gli italiani stanno diventando più poveri. Tutto quello che si è letto negli ultimi mesi sulla responsabilità che occorre avere sugli incrementi salariali per fermare l’inflazione fila perfettamente dal punto di vista economico, ma molto di meno da quello sociale. Potrebbe andare bene, al limite, se questa responsabilità fosse una “una tantum”, non se si è entrati in un nuovo paradigma. In ogni caso nel resto d’Europa questo scollamento tra inflazione e crescita dei salari non c’è e abbondano gli esempi di rinegoziazioni salariali, per interi settori, che sono terminate con incrementi rotondi, in molti casi ampiamente in doppia cifra.



Se l’inflazione al 2% è una fase pluridecennale chiusa e se n’è aperta un’altra diversa, allora il mancato adeguamento dei salari diventa un problema. L’Italia è un Paese importante all’interno dell’euro, ma non può spostare le dinamiche in atto in tutta l’Eurozona. In altre parole, la responsabilità sui salari degli italiani può aiutare il problema europeo dell’inflazione, ma non risolverlo. Se la divaricazione osservata a maggio continuasse nei prossimi mesi ci troveremmo improvvisamente in un’altra fase della storia italiana ed europea. Cioè quella del 2012, quando l’Italia subiva la cura Monti, che la lasciava, tra le altre cose, con un debito pubblico in percentuale del Pil molto più alto della situazione iniziale. La deflazione salariale in Italia, in quella fase, si faceva carico degli squilibri dentro l’area euro, manteneva la competitività delle imprese europee e dell’euro, che evitava la rivalutazione, e salvava il modello europeo tutto esportazioni che ha funzionato “benissimo” quando gli scambi globali fluivano indisturbati. Oggi, invece, siamo in uno scenario di guerre commerciali e protezionismo, e in qualche caso, non lontano dai confini dell’Europa, di guerre vere.

Eppure, anche in Italia, esattamente in linea al resto d’Europa, il mercato del lavoro è stretto e in alcuni settori si fatica a trovare personale. Le imprese italiane, in linea con il resto d’Europa, hanno mantenuto i margini. Evidentemente il “sistema Paese” riesce a evitare, “con responsabilità”, una rinegoziazione dei salari. L’anomalia italiana sui salari è un aiuto al sistema europeo, al suo status quo, in una fase in cui si deve recuperare competitività viste le sfide poste dalla fine della globalizzazione.

Ciò che sfugge è che i sacrifici che gli italiani hanno accettato o subito nel 2012, in particolare, sono molto meno problematici, dal punto di vista sociale, di quelli fatti oggi. La ragione è che nel 2012 l’inflazione era al 3% mentre nel 2022 è stata dell’8,4% e a maggio 2023 era ancora al 7,6%. Più a lungo il nuovo quadro di inflazione dura più il problema diventa profondo e le incognite sociali si moltiplicano.

Nessuno, ovviamente, ipotizza che ci sia una sorta di accordo tra Italia ed Europa, speculando magari sulle riforme del Reddito di cittadinanza e sulle politiche migratorie, sulla responsabilità salariale della prima che non è neutrale né dentro l’Italia, né fuori. Sarebbe un azzardo che può andare bene per qualche mese, ma non molto di più, in uno scenario di inflazione e ristrutturazione delle catene di fornitura globali. Il costo di un calcolo politico sbagliato sarebbe un multiplo, anche dal punto di vista sociale, di quello pagato nel 2012.

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