La recente indagine dell’Ocse relativa all’andamento dei salari reali che ha messo in evidenza una perdita del valore medio reale del 6,9% di quelli percepiti dai lavoratori dipendenti italiani rispetto al 2019 ha riscontrato una grande attenzione sui mass media e nel dibattito politico. Il dato italiano, oltre a marcare una significativa differenza negativa rispetto a quello medio degli altri Paesi oggetto dell’indagine, conferma l’esistenza di un problema strutturale che perdura dall’inizio degli anni 90 (una perdita del 2,9% del potere di acquisto rispetto alla crescita media del valore reale 26% nel complesso dei Paesi Ocse) derivante da un complesso di fattori e da squilibri interni al sistema redistributivo (bassa produttività, elevata incidenza del cuneo fiscale, entità dell’economia sommersa) che non riscontrano risposte efficaci e di lunga durata.
Negli ultimi 15 anni caratterizzati da due grandi crisi economiche, le politiche redistributive attivate dai Governi e dalla contrattazione collettiva sono state orientate dall’obiettivo di tutelare i redditi medio bassi con un massiccio aumento delle risorse a carico della finanza pubblica, oltre 500 miliardi di euro, con una particolare accentuazione nel corso della pandemia Covid-19. Questi provvedimenti hanno consentito, secondo le indagini effettuate dall’Istat, di mantenere pressoché inalterati gli indici che segnalano i livelli di disuguaglianza nella distribuzione del reddito anche per effetto della corrispondente contrazione delle fasce dei percettori dei redditi medi ed elevati, ma non hanno impedito l’aumento vertiginoso, circa 2,5 volte, del numero delle persone povere rispetto al 2008.
In questo contesto il ruolo della contrattazione collettiva è risultato marginale. La crescita dei salari contrattuali nominali è stata guidata dai rinnovi dei contratti nazionali orientati a difendere il potere di acquisto reale delle retribuzioni. I ritardi dei rinnovi contrattuali, anche per l’impatto di due rilevanti crisi economiche, hanno comportato perdite significative per i salari di interi settori e in modo pressoché generalizzato nel corso degli ultimi tre anni in coincidenza di un aumento dell’inflazione del 18%. Questo andamento ha lasciato il segno soprattutto nei settori del terziario ad alta intensità di occupazione e con bassa produttività. In questi comparti economici (commercio, ristorazione, turismo, servizi alle persone e alle imprese, trasporti e logistica), che hanno svolto un ruolo essenziale per il recupero delle perdite occupazionali rispetto al 2008, la quota dei lavoratori con bassa qualificazione, dei contratti a termine e part-time, risulta largamente superiore alla media. Sono attività economiche che registrano anche una rilevante quota di prestazioni sommerse che, inevitabilmente, comportano una concorrenza sleale per le imprese che rispettano le regole. Il peso della contrattazione di secondo livello, in particolare quella aziendale legata ai risultati, risulta confinato nelle medie grandi aziende della manifattura, dei servizi e della distribuzione, con un’incidenza inferiore al 30% sul totale degli occupati privati.
Nello sviluppo dell’occupazione nei servizi manca la componente della Pubblica amministrazione per via del blocco del turnover del personale, della mancata spesa per la sanità e l’istruzione (circa -3,5% di Pil rispetto la media dei Paesi europei) e della relativa quota di laureati che rappresentano una caratteristica peculiare di queste attività economiche. La riduzione di oltre 1,4 milioni di occupati con medie ed elevate qualifiche e l’aumento del numero dei lavoratori con orari annuali ridotti offrono un’ulteriore contrazione del valore medio dei salari di fatto, che sono l’oggetto delle comparazioni internazionali citate.
La novità intervenuta nell’ultimo decennio, a partire dall’erogazione del contributo statale degli 80 euro mensili per i salari inferiori ai 26 mila euro anno introdotto dal Governo Renzi nel 2014, è rappresentata dal progressivo intervento dello Stato per il sostegno dei salari netti dei lavoratori. Allo stato attuale, sommando l’evoluzione di quel provvedimento e gli interventi disposti dai Governi Draghi e Meloni per ridurre il cuneo fiscale per i salari inferiori ai 35 mila euro lordi anno, si può calcolare che l’intervento pubblico abbia consentito di compensare almeno il 12% della perdita del potere di acquisto dei salari medio bassi. Il costo di questi interventi è stato trasferito sui contribuenti fiscali che sono per la gran parte lavoratori dipendenti con redditi superiori ai 35 mila euro anno.
In aggiunta dovrebbero essere considerati anche gli sgravi contributivi autorizzati dalle normative per agevolare le nuove assunzioni (circa 150 miliardi di euro nel medesimo periodo) che hanno consentito di ridurre il costo del lavoro e di aumentare, in via del tutto teorica, anche lo spazio per gli aumenti salariali.
L’intervento sul cuneo fiscale, che scade alla fine del 2024 dovrà essere consolidato per evitare le conseguenze negative per i salari netti dei lavoratori, ma rappresenta un vincolo di non poco conto per la spesa pubblica destinato a crescere oltre gli attuali 11 miliardi in coincidenza degli aumenti dei salari nominali.
Con la riduzione del tasso di inflazione, i rinnovi dei contratti collettivi nazionali e gli aumenti salariali che consentono anche un parziale recupero degli scostamenti pregressi, i redditi dei lavoratori dipendenti stanno registrando un andamento significativamente superiore a quello dell’inflazione. Ma l’esperienza pluriennale ha dimostrato che è lo stesso impianto della contrattazione collettiva basato sulla centralità dei contratti collettivi nazionali, corredato dalla scelta di concentrare le politiche redistributive sulla tutela dei bassi redditi da lavoro, a risultare inadeguato per la finalità di far crescere i salari reali. Questo sistema risulta poco sensibile rispetto all’esigenza di stimolare e di ridistribuire la crescita della produttività (la contrattazione aziendale e territoriale coinvolge meno del 30% dei lavoratori) e per far crescere la quota degli occupati con salari più elevati.
È un modello pauperistico-assistenziale che trasferisce sullo Stato il compito di tutelare i redditi da lavoro, ottenendo risultati opposti rispetto a quelli desiderati.
Nei prossimi anni, in assenza di eventi traumatici, la domanda di lavoro delle imprese è destinata ad aumentare a ritmi superiori rispetto a quella dei lavoratori disponibili. Sul piano teorico sarebbe la condizione ideale per favorire la crescita dei salari reali e per rendere attrattivi i nuovi posti di lavoro. Per ottenere questo risultato bisogna agire su diverse leve: aumentare i livelli di utilizzo delle nuove tecnologie e delle competenze dei lavoratori che consentono il loro impiego; orientare la spesa sociale verso gli impieghi che consentono ricadute produttive; aumentare il tasso di utilizzo dei lavoratori che risultano sottoccupati rispetto alle loro potenzialità; rafforzare la contrattazione decentrata aziendale e territoriale e la quota dei contratti collettivi che aumentano i salari utilizzando gli indicatori della produttività e della redditività delle imprese.
Sono scelte che richiedono il contributo attivo delle parti sociali per le implicazioni dirette sulle caratteristiche e i sui contenuti delle relazioni sindacali e per la capacità di influenzare le scelte delle Istituzioni.
Di fronte alla gravità dei problemi, l’assenza di un dialogo sociale tra le grandi Confederazioni delle imprese e dei lavoratori, la palese difficoltà nel condividere analisi e obiettivi comuni e di assumere l’interesse generale come condizione per tutelare quelli di parte, rappresentano il sintomo di una crisi delle relazioni sindacali che allontana la possibilità di costruire risposte credibili.
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