Il Rapporto annuale dell’Istat, che abbiamo commentato la scorsa settimana, offre un’ulteriore conferma della riduzione del valore reale delle retribuzioni dei lavoratori italiani. La crescita dei prezzi (+17,3%) tra gennaio 2021 e dicembre 2023 è risultata superiore di tre volte rispetto all’aumento dei salari nominali (+4,9%). Lo sgravio del pagamento dei contributi previdenziali sui salari inferiori ai 35 mila euro anno, confermato nella Legge di bilancio 2024, ha compensato una parte dell’impatto negativo sui salari netti fino a 35 mila euro anno (circa 6 punti). Tutto ciò non ha impedito l’ulteriore incremento del divario accumulato nel corso degli ultimi 30 anni rispetto ai salari medi dei Paesi dell’Ue circa – 30 punti) e dei grandi Paesi dell’ Eurozona nei 15 anni recenti (-17% Germania, -14% Francia, -10% Spagna).
Negli ultimi 6 mesi, grazie alla riduzione del tasso di inflazione e al rinnovo di molti contratti collettivi nei comparti dei servizi e della Pubblica amministrazione, è in corso un parziale recupero del valore reale dei salari. Destinato a proseguire con il rinnovo dei contratti collettivi in scadenza.
Le indagini Ocse ed Eurostat vengono utilizzate, da alcuni anni a questa parte, per rivendicare l’esigenza di un intervento legislativo a sostegno dei salari minimi. Ma un’analisi più approfondita di questi dati fa emergere che lo scostamento sui salari medi di fatto risulta influenzato soprattutto dalla riduzione dell’incidenza della quota dei lavoratori con retribuzioni medio elevate.
Un contributo negativo in questa direzione è stato offerto dal blocco del turnover della Pubblica amministrazione e dalla decrescita delle risorse pubbliche destinate ad alcune prestazioni fondamentali del welfare (sanità, assistenza, istruzione), in settori che potevano offrire un contributo sostanzioso per l’occupazione dei giovani e delle donne laureati e diplomati. Sul versante opposto, quello delle basse retribuzioni, il contributo negativo è stato offerto dalla crescita dell’occupazione dei comparti dei servizi privati caratterizzati da micro imprese e da una bassa intensità di investimenti. Sono le attività economiche dove si concentra la quota prevalente dei lavoratori, circa 4 milioni, a termine, part-time e stagionali e dove è presente un’elevata componente di prestazioni sommerse. Lo scarso impiego delle tecnologie digitali, che svolgono un ruolo trainante per la modernizzazione delle organizzazioni del lavoro, comprime il potenziale di crescita della produttività. La redditività di queste imprese dipende essenzialmente dalla capacità di comprimere i costi del lavoro.
Negli ultimi due anni, le indagini Istat segnalano che l’incremento dell’occupazione, soprattutto a tempo indeterminato, ha contribuito ad aumentare i redditi familiari di circa 3 punti, attenuando l’impatto negativo dell’inflazione. Ma nel frattempo è aumentato anche il numero dei lavoratori occupati appartenenti a famiglie con redditi inferiori alla soglia di povertà. In buona sostanza, la perdita del valore reale delle retribuzioni è il risultato finale del concorso di tre fattori strutturali: la riduzione della quota dei lavoratori con medie e alte qualifiche; l’incidenza dei settori e delle imprese caratterizzate da bassi livelli di investimento; la stagnazione della produttività.
Negli ultimi 15 anni i tratti distintivi delle scelte politiche dei Governi e delle parti sociali sono stati orientati dall’esigenza di promuovere interventi da parte dello Stato per tutelare i lavoratori e le famiglie con bassi redditi (sgravi fiscali e contributivi, sostegni ai redditi di varia natura, prepensionamenti, vincoli per l’utilizzo della manodopera, sgravi per le assunzioni) e per risarcire i lavoratori, i disoccupati e le famiglie che subiscono le conseguenze negative dei cicli economici. Interventi che hanno comportato un aumento esponenziale della spesa pubblica negli ultimi 15 anni. L’entità annuale delle risorse trasferite dallo Stato verso l’Inps, l’ente erogatore delle prestazioni, è balzata dai 74 miliardi di euro del 2008 ai 157 del 2022, con un incremento complessivo di spesa aggiuntiva superiore di circa 400 miliardi. I risultati ottenuti in termini di miglioramento dei redditi da lavoro, di quantità e di qualità dell’occupazione, del contrasto alla povertà, sono a dir poco, deludenti.
Nell’ultimo decennio una quota significativa della spesa pubblica è stata impegnata per sostenere in presa diretta il valore dei salari netti dei lavoratori (gli 80 euro del Governo Renzi, i recenti sgravi Irpef e dei contributivi previdenziali sulle retribuzioni) in aggiunta aduna miriade di bonus assistenziali erogati dalle pubbliche amministrazioni con l’utilizzo dell’Isee. Questi interventi hanno generato effetti paradossali. Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito tra le famiglie (l’indice Gini) e sui redditi da lavoro (i differenziali salariali tra le diverse qualifiche) sono state contenute e, in alcuni casi, persino ridotte. Ma tutto ciò non ha evitato l’aumento del numero delle persone povere e la svalutazione dei salari reali.
Nel contempo continuano a essere trascurati i fattori e le scelte che possono consentire l’inversione di tendenza. A partire dal fabbisogno di aumentare la produttività delle organizzazioni del lavoro che in tutti i Paesi sviluppati rappresenta la precondizione per la crescita dei redditi da lavoro. Le risorse finanziarie e tecnologiche disponibili sono abbondanti, ma sono scarsi gli attori che le vogliono impiegare nella direzione auspicata. L’estensione degli incentivi di Industria 4.0, che hanno favorito la competitività delle nostre esportazioni, alle attività dei servizi privati e l’impatto della digitalizzazione dei servizi della Pubblica amministrazione potrebbero facilitare la ripresa della produttività con un impatto sistemico. L’utilizzo delle tecnologie digitali nelle organizzazioni del lavoro dipende dalla quantità e dalla qualità delle competenze dei lavoratori e da un’adeguata remunerazione del loro contributo.
La crescita dei salari collegata agli aumenti della produttività e la formazione dei lavoratori rappresentano la via maestra per rendere attrattivo il nostro mercato del lavoro e per ridurre la quota della domanda delle imprese che non trovano lavoratori disponibili. L’affermazione trova un ampio riscontro nella realtà. Infatti, sono i settori e le aziende più produttive quelli che rinnovano rapidamente i contratti collettivi nazionali di lavoro, che integrano le retribuzioni minime con gli accordi aziendali collegati ai risultati delle imprese e che garantiscono una maggiore stabilità dei rapporti di lavoro. Purtroppo queste buone pratiche continuano ad avere un ruolo marginale nelle relazioni sindacali.
L’assenza di un dialogo sociale tra le rappresentanze confederali delle imprese e dei lavoratori su questi temi è preoccupante. La crisi del modello redistributivo fondato sull’invadenza dello Stato nella regolazione dei rapporti di lavoro e nella redistribuzione del reddito è conclamata nei fatti, ma rimane priva di alternative credibili.
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