Dopo una settimana di fuochi d’artificio (dalla pasticciata tassa sugli extraprofitti delle banche all’ingresso diretto dello Stato nella nuova società per la rete Tim), Giorgia Meloni ha segnato un punto a suo favore con l’incontro a palazzo Chigi tra il Governo e le opposizioni. “Inizio difficile”, ha commentato Il Corriere della Sera, non c’è una proposta concreta, men che mai condivisa (né all’interno della maggioranza né tra i partiti che ne sono fuori), “la premier prende tempo, da qui alla manovra” (Il Sole 24 Ore), tuttavia chi vuol vedere il bicchiere mezzo pieno può dire che c’è un cambio di passo. Il Governo ha riconosciuto che la questione salariale esiste, anzi rappresenta una priorità della politica economica nel prossimo autunno. Va affrontata con spirito negoziale e nell’insieme costruttivo.



Ci sono due mesi per vedere se l’elefante partorirà quanto meno un topolino ed è una buona idea coinvolgere il Cnel, un organo di rilievo costituzionale per quel che riguarda l’economia e il lavoro. Non solo, contiene l’archivio di tutti i contratti collettivi e il presidente Renato Brunetta potrà dare un importante contributo. Una delle questioni fondamentali (e tra le più spinose) è stabilire quale organizzazione sindacale è davvero rappresentativa (vale anche per i datori di lavoro). Un rebus da risolvere sia per chi come la Cisl e Forza Italia pensa che la via maestra resti quella contrattuale senza fissare parametri stabiliti per legge, sia per chi, come il Pd, propone di “estendere in tutti i settori il trattamento dei contratti di lavoro più rappresentativi, senza scendere sotto i 9 euro lordi l’ora”.



Detto questo, concentrare la questione salariale sul minimo per legge può rivelarsi un errore. Si confrontano oggi i contrattualisti, i fiscalisti, i minimalisti e i pattisti. Chi sostiene che il contratto collettivo sia la via maestra è smentito da quel che accade negli Usa, dove i sindacati sono deboli e la contrattazione è molto decentrata, frantumata in categorie, mansioni, se non proprio individuale, eppure i salari aumentano al punto da essere accusati di aver provocato l’inflazione. Ciò è avvenuto grazie alla crescita economica e a quella che molti economisti chiamano una spinta dal lato dell’offerta: non solo la ripresa post-Covid, ma l’apertura di nuove fabbriche in seguito al ritorno a casa di molte attività un tempo decentrate all’estero.



Chi pensa che lo strumento principale sia il fisco si scontra con una finanza pubblica che non ha margini sufficienti. La riduzione del cuneo fiscale scade a fine anno. Non basta certo a rimpinguare le buste paga, ma volendo solo riproporla richiede altri 9 miliardi di euro. Non ci sono spazi veri per usare le imposte sul lavoro dipendente come alternativa agli aumenti contrattuali. Possono solo essere un incentivo complementare.

Chi fa del minimo per legge l’emblema della nuova “lotta di classe” trascura il nocciolo della questione. Il problema in Italia non è solo che tre milioni di lavoratori ricevono una paga infima, ma che sono troppo basse le retribuzioni medie, anzi persino quelle più alte. Sparare tutte le cartucce sul salario minimo lascia senza ulteriori munizioni gli stessi sindacati e partiti che hanno scelto la busta paga come bandiera del “riscatto sociale” e come piattaforma politica.

Chi ritiene che la soluzione più razionale sia un accordo tra le parti sociali garantito dal Governo si scontra con il fatto che oggi non ci sono le condizioni politiche per riesumare un nuovo patto Ciampi, simile a quello che nel 1993 fissava come bussola l’inflazione programmata. I partiti della maggioranza hanno posizioni diverse, ma sono uniti dal no a un limite fissato per legge. Nemmeno le opposizioni la pensano allo stesso modo, ma sembra che abbiano trovato un minimo comun denominatore nel no al Governo. Due no uguali e contrari.

È vero che 22 Paesi sui 27 dell’Ue hanno un qualche salario minimo; e s’aggiungono anche Gran Bretagna e Stati Uniti. Ma le differenze sono enormi, a seconda dei modelli contrattuali e del mercato del lavoro. Si va dai 398 euro mensili in media in Bulgaria ai 1.997 in Germania. Cambia molto anche la titolarità. In Olanda il salario minimo si applica solo a chi ha un contratto di lavoro, al contrario di quel che si vuol fare in Italia. In Germania è stato introdotto nel 2015, su spinta del Partito socialdemocratico (Spd), allora partner di governo della grande coalizione guidata dalla cancelliera Angela Merkel. È stato fissato a 8,5 euro per ora lavorata, con aumenti successivi, l’ultimo dei quali nell’ottobre 2022, fino a raggiungere gli attuali 12 euro all’ora. Il prossimo, definito da una commissione ad hoc, entrerà in vigore il 1° gennaio prossimo. I sindacati hanno chiesto un aumento a 14 euro, si è arrivati solo a 12,41 euro. In Francia lo Smic che risale al 1950 è stato fissato quest’anno a 11,27 euro l’ora con un orario di 35 ore settimanali, vale per chiunque abbia più di 18 anni e si rivaluta in rapporto all’inflazione e alla media delle paghe contrattuali. In Spagna è frutto di accordi tra il Governo e i due principali sindacati. In Belgio esiste un reddito minimo garantito e in Irlanda dal 2026 ci sarà il “salario di sussistenza”.

L’Italia, insomma, dovrà trovare la propria strada. Ma soprattutto dovrà affrontare la questione salariale nel suo complesso, tenendo conto di alcune fondamentali variabili: l’ampiezza della contrattazione e la sua eccessiva verticalità che ancora scoraggia gli accordi aziendali; la rappresentatività effettiva (la soglia del 5% tra iscritti e voti nelle rappresentanze sindacali unitarie è troppo bassa e alimenta la frantumazione contrattuale); il costo della vita, ma anche la produttività, il tasso di crescita, le finanze pubbliche. Un’equazione a molte incognite per risolvere la quale una semplice leggina certo non è sufficiente.

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