Durante la campagna elettorale la questione del salario minimo è stata colpevolmente dimenticata anche se la querelle tutta italiana ha preso il via nei mesi scorsi da una Direttiva europea – Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo – che indica l’orizzonte su cui i Paesi della comunità è bene che si orientino anche per contrastare i salari bassi che si registrano in tutta l’area. La verità è che a fronte di un irrigidimento dei partiti della sinistra, e dunque dell’opposizione, sui 9 euro minimi all’ora la ragionevole proposta del Governo è e rimane lo strumento della contrattazione collettiva per la tutela del lavoro dipendente.



La contrattazione in Italia ha una robusta esperienza di ruolo dei sindacati riguardo i trattamenti retributivi complessivi garantiti dai contratti più diffusi a livello nazionale e di categoria, ma è evidente che la precaria situazione finanziaria che ci siamo trovati a gestire ha indebolito, se non ritardato, il rinnovo dei contratti scaduti che non hanno ovviamente bilanciato l’inflazione galoppante con ripercussioni notevoli sui salari. Salario minimo e contrattazione collettiva dunque non sono forme di tutela alternative o addirittura antagoniste, ma complementari e sinergiche a tutela dei lavoratori dipendenti. Infatti, l’articolo 36 della Costituzione è l’attuazione del diritto a una retribuzione dignitosa, un effetto che ritroviamo poi a tutela negli articoli 37 e 38 nelle posizioni fragili – lavoro minorile, riposo settimanale, ferie lavoratrici madri, lavoro femminile, parità di retribuzione, inabilità.



Chiaro che il sindacato attraverso la negoziazione può raggiungere obiettivi consistenti in quanto è l’art. 39 sempre della Costituzione che garantisce la forza del contraente, ma per raggiungere l’accordo bisogna essere in due parti e questo schema oggi è in crisi a causa sia dell’indebolita relazione sindacale che ha perso forza e consistenza che dalla capacità di reazione collettiva. Abbiamo così la mancanza di adeguamento salariale all’inflazione che incentiva il rimando del rinnovo contrattuale da parte datoriale con incertezze giurisprudenziali (non si trova il tempo e la volontà di accordarsi su un testo di legge a livello parlamentare), la contestualizzazione del costo della vita e inevitabili contenziosi delle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro e troppo spesso l’intervento davanti al giudice del lavoro diventa un ricorso inevitabile. Comunque un intervento è indispensabile anche per ridurre il cosiddetto lavoro povero degli autonomi come le partite Uva nel lavoro dipendente. Così si fa largo l’idea di un salario minimo stabilito dalle categorie di appartenenza affidato ai diversi contratti collettivi il cui effettivo rispetto dovrebbe essere assicurato dalla capacità dei sindacati di gestire le risorse pubbliche premiali per i più virtuosi. E il lavoro nero che è la piaga vera della irregolarità comunque non solo rimane libero, ma sta proliferando.



Il problema della regolarità salariale è strettamente correlato al costo del lavoro che è appesantito da contribuzioni e fiscalizzazioni pesanti. Vero è che fino a che si veleggia in Italia sul Reddito di cittadinanza che alcuni rimpiangono nonostante le truffe, o il salario di inclusione che tarda a essere concretamente sviluppato sul meccanismo della piattaforma che dovrebbe far incontrare domanda/offerta e formazione nonché sostegno economico, si fa strada contemporaneamente anche l’incerta soluzione per le persone occupabili ma a oggi disoccupate di un intervento economico che li tuteli dalla povertà. Abbiamo dunque due strade davanti: o il salario minimo legale, che però in alcuni casi appiattirebbe i salari legati alle professionalità (infatti. in Italia abbiamo il problema che i cd salari alti sono bassi rispetto a profili professionali che negli altri Paesi vengono maggiormente retribuiti) ma proteggerebbe i “working poor”, o la rinascita di un ruolo sindacale di rinegoziazione bilaterale non solo dei contratti scaduti ma di nuovi accordi negoziabili flessibili che contrastino la delocalizzazione produttiva che ci sta indebolendo.

Il fatto vero indispensabile è che in vista della costruzione di un mercato unico europeo dobbiamo adottare un metodo di coordinamento delle politiche economiche dell’Ue che è una questione essenziale politica. Significa prima di tutto per noi ridurre il rapporto debito/Pil, sforzo che è molto impegnativo, con un’azione efficace di correzione del nostro disavanzo selezionando la spesa pubblica e l’investimento. Dobbiamo raggiungere obiettivi di risparmio per le amministrazioni centrali pari a 1,2 miliardi nel 2024 e 1,5 miliardi nel 2025 e la pubblicazione di tre relazioni del Mef entro giugno 2024, 2025 e 2026 con spending review relative al 2023, 2024 e 2025.

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