Al 31 dicembre 2023 sono circa 6,5 milioni i lavoratori dipendenti in attesa di rinnovo contrattuale, il 52,4% del totale. Il tempo medio di attesa per il rinnovo (32,2 mesi) è aumentato di 12,5 mesi rispetto al precedente anno. L’aumento medio delle retribuzioni orarie nel corso dell’anno è stato del 3,1% e del 7,9% rispetto al mese di dicembre 2022 con forti differenze tra i vari comparti economici: 4,5% per i dipendenti dell’industria manifatturiera; 2,5% per i servizi privati; 22,2% nella Pubblica amministrazione. Questi sono i dati salienti relativi all’andamento delle retribuzioni e dei rinnovi dei contratti collettivi forniti dall’Istat nella Nota pubblicata il 31 gennaio u.s..
Sono numeri che segnalano un parziale recupero delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti rispetto al dato tendenziale dell’inflazione, ma con forti squilibri tra i diversi settori di attività. Il dato relativo alla Pubblica amministrazione deve essere interpretato in modo peculiare perché i recenti incrementi retributivi sono dovuti al recupero dei mancati rinnovi contrattuali precedenti, mentre vengono ancora classificati nel novero dei settori e dei dipendenti in attesa di rinnovo per l’anno in corso. Le differenze tra i settori trovano una conferma anche negli indici relativi alla crescita dei salari nominali a partire dal 2015: +9,3% nell’industria, +6,4% nei servizi privati, +11,9% nella Pubblica amministrazione, rispetto all’incremento medio dell’8,9% per l’insieme dei lavoratori dipendenti.
La perdita del valore reale delle retribuzioni si concentra soprattutto negli anni per via della crescita dell’inflazione (+16,2% rispetto al 2019) e in particolare dei beni energetici (59,4%) e di quelli alimentari (21,7%) che hanno generato un impatto negativo, superiore al 20%, sui redditi medio-bassi. Le conseguenze sui salari netti sono state in parte attenuate dagli sgravi contributivi sulle retribuzioni lorde inferiori ai 35 mila euro recentemente confermati dalla Legge di bilancio 2024. Sono provvedimenti motivati dalle condizioni di emergenza, ma che comportano una distribuzione di una quota di reddito che non trova riscontro nella produzione e un aumento del debito pubblico che dovrà essere onorato con il ridimensionamento di altre prestazioni.
La bassa crescita strutturale dei salari italiani viene confermata nei dati forniti da Eurostat relativi all’andamento dei salari medi annuali per i rapporti di lavoro a tempo pieno nel decennio recente. La distanza tra il salario nominale italiano rispetto alla media dei 20 Paesi dell’Eurozona è aumentata in modo esponenziale da 2.710 a 7.623 euro.
Il dibattito italiano sulla materia continua a essere caratterizzato dalla richiesta di interventi dello Stato per aumentare il salario orario minimo legale e gli sgravi fiscali e contributivi sui redditi da lavoro, trascurando i fattori strutturali della bassa crescita dei salari reali dei lavoratori italiani. Negli anni 2000 l’andamento delle economie e dell’occupazione nei Paesi sviluppati è stato condizionato da due fattori: gli esiti del riposizionamento delle filiere produttive nell’ambito dell’espansione dei mercati internazionali; la quantità e la qualità degli investimenti nei comparti dei servizi che hanno avuto un ruolo rilevante per la crescita dell’occupazione. Per l’Italia la globalizzazione dei mercati ha comportato in prima istanza una riduzione dell’occupazione nei settori industriali, rimediata da un recupero di competitività nella seconda decade degli anni 2000 e da una parziale ripresa dell’occupazione negli anni recenti.
Lo sviluppo del terziario italiano è avvenuto in grande prevalenza nei comparti a basso valore aggiunto e con una costante decrescita del tasso medio degli investimenti e della produttività pro capite. Un’evoluzione che ha comportato una perdita di 1,4 milioni di lavoratori con qualifiche medio alte, in parte causata dal blocco delle assunzioni nella Pubblica amministrazione, che sono stati sostituiti da un analogo aumento del numero degli addetti ai servizi e alle vendite nei comparti del commercio, dell’accoglienza, della logistica, dei servizi alle persone. Questa evoluzione ha comportato anche una riduzione degli orari medi lavorati e dei salari di fatto e un oggettivo indebolimento del potere contrattuale delle organizzazioni sindacali nei comparti di attività che sono caratterizzati da una prevalenza di microimprese e dalle prestazioni lavorative sommerse.
La compressione della crescita dei salari nominali e reali è figlia di queste dinamiche strutturali. I risultati ottenuti dai Paesi europei più performanti non sono il frutto di interventi normativi sulle retribuzioni, ma della diversa combinazione dei fattori produttivi e in particolare dalla quantità di investimenti destinati a migliorare le organizzazioni del lavoro e le competenze dei lavoratori.
Nonostante i ritardi, questa evoluzione è possibile anche per il nostro Paese. La disponibilità delle risorse finanziarie pubbliche e private e delle tecnologie risulta superiore alla capacità di utilizzo della Pubblica amministrazione e delle imprese. La domanda di lavoratori qualificati non trova un adeguato riscontro nell’offerta di lavoro. Ma per trasformare queste potenzialità in realtà non basta l’elenco delle buone intenzioni: la crescita della produttività deve essere assunto come obiettivo primario delle politiche economiche e del sistema della contrattazione collettiva.
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