Secondo il rapporto “OECD Employment Outlook 2024”, i salari reali italiani, cioè quelli corretti per l’inflazione, sono rimasti sostanzialmente invariati rispetto al 1990. Infatti, tra il 1990 e il 2023, i salari reali medi italiani sono aumentati solo del 2,9%, l’Italia è rimasta indietro e il divario con gli altri Paesi europei si è accentuato ulteriormente dopo la pandemia e la conseguente impennata inflazionistica. Questo ristagno è il risultato di anni di bassa crescita della produttività, elevata precarietà lavorativa e un tessuto industriale che ha faticato a rinnovarsi.
Nel 2024, secondo Istat, la retribuzione oraria media in Italia è aumentata del 3,2%, spinta dalla necessità di adeguare i contratti collettivi e di compensare l’inflazione degli ultimi anni. Tuttavia, nonostante questa crescita apparente, i salari reali hanno beneficiato solo marginalmente. Con un’inflazione che si è attestata intorno al 2,8% nel 2024, l’aumento effettivo del potere d’acquisto è stato quasi nullo.
Il fenomeno dell’inflazione ha giocato un ruolo cruciale in questo scenario, infatti, dopo il picco inflazionistico del 2022 con un tasso medio annuo superiore all’8%, il 2023 ha visto un rallentamento della crescita dei prezzi, stabilizzandosi intorno al 5,7%. Anche se nel 2024 l’inflazione si è ulteriormente ridotta, gli aumenti salariali sono stati necessari per recuperare il potere d’acquisto perso nei due anni precedenti.
Il recupero salariale in Italia è stato però disomogeneo, ovvero le regioni del Nord, come la Lombardia, l’Emilia-Romagna e il Veneto, hanno visto aumenti medi superiori al 3,5%, mentre nel Mezzogiorno la crescita è stata più contenuta, attorno al 2,5%. Questo divario riflette le differenze strutturali del tessuto produttivo italiano e la minore forza contrattuale dei lavoratori nelle regioni meridionali. Anche a livello settoriale si evidenziano disparità significative. I comparti legati all’industria manifatturiera e ai servizi digitali hanno registrato i maggiori aumenti, con punte del 4,5% in alcuni casi. Al contrario, i settori della Pubblica amministrazione, del commercio al dettaglio e del turismo hanno visto incrementi più modesti, anche inferiori del 2%.
Le prospettive per il 2025 non sono incoraggianti. Gli esperti dell’Ocse stimano che la crescita dei salari nominali rallenterà al 2,5%, mentre l’inflazione dovrebbe attestarsi intorno al 2%. Questo significa che i salari reali potrebbero crescere di appena lo 0,5%, insufficiente per recuperare il potere d’acquisto perso negli anni precedenti. Anche secondo il rapporto del Centro Studi Confindustria i salari dovrebbero continuare a crescere, con una previsione media di incremento del 2,7%, dato tuttavia dipendente dall’andamento dell’economia globale e dalla capacità del Governo italiano di attuare politiche di stimolo alla crescita. Più ottimistico il report “Total Remuneration Survey” di Mercer di New York, una delle più grandi società di consulenza globale specializzate in risorse umane, che prevede un maggiore incremento degli stipendi degli italiani, con un aumento dei salari che si aggira attorno a un 3,5%.
Il divario con gli altri Paesi europei è evidente: secondo Eurostat, nel 2023 il salario medio lordo annuale in Italia è stato di circa 31.000 euro, contro i 44.000 euro della Germania e i 39.000 euro della Francia. Questo significa che un lavoratore tedesco guadagna mediamente il 40% in più rispetto a un lavoratore italiano. Non solo i salari medi sono più bassi, ma l’Italia è anche uno dei pochi Paesi europei in cui i salari reali sono diminuiti nel lungo periodo, infatti dal 2000 al 2023 i salari reali italiani sono calati del 2,9%, mentre nello stesso periodo la media dei Paesi Ocse ha registrato una crescita del 25%. Le ragioni di questa stagnazione sono molteplici, anche se uno dei fattori principali è la bassa produttività del lavoro, dove la produttività in Italia è cresciuta solo del 4% negli ultimi vent’anni, mentre in Germania e Francia l’aumento è stato rispettivamente del 15% e del 20%.
Un altro elemento chiave è la precarietà lavorativa: con circa il 15% dei lavoratori italiani impiegati con contratti a termine si limita le possibilità di avanzamento salariale. Per invertire questa tendenza, è necessario un piano di riforme strutturali: investimenti in innovazione, formazione professionale e digitalizzazione sono fondamentali per aumentare la produttività e, di conseguenza, i salari. Inoltre, una riduzione del cuneo fiscale e incentivi per le imprese che investono in formazione e digitalizzazione potrebbero creare le condizioni per una crescita salariale più solida e duratura e aiutare a ridurre il divario tra stipendio lordo e netto, aumentando il potere d’acquisto dei lavoratori.
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